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BY 4.0 license Open Access Published by De Gruyter (A) May 19, 2020

Invocazione al “signore dell’anima che sempre vive”: Melanipp. PMG 762

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From the journal Philologus

Abstract

In Melanipp. PMG 762 the reading βροτῶν (v. 1) of the MSS can be retained. The god invoked as “lord of the everlasting soul” (v. 2), generally identified with Dionysus-Zagreus, can be rather recognized as the Orphic Zeus.

Tra i frammenti incertae sedis di Melanippide di Melo merita particolare attenzione la breve allocuzione trasmessa da Clemente Alessandrino nel quinto libro degli Stromati (14.112 = PMG 762), nel quadro di una discussione che mira a mostrare il plagio (κλοπή) di varie dottrine esposte nelle Sacre Scritture compiuto da parte di filosofi e poeti greci.[1] A tale scopo, l’Alessandrino adduce una serie di passi che parlano della divinità in termini compatibili con la teologia cristiana: vari di questi passi ricorrono anche nel Protrettico (cap. 2; 6–8) e in altri testi apologetici del II secolo (in part. nella Cohortatio ad Graecos e nel De monarchia pseudo-giustinei), e risalgono con ogni probabilità ad una fonte comune, la cosiddetta ‘antologia del plagio’,[2] ma ciò non vale per il brano melanippideo. Quest’ultimo è noto al solo Clemente, che lo ha inserito tra gli esempi perché il frammento presenta l’invocazione ad un imprecisato dio definito “padre” e “signore dell’anima che sempre vive”, due caratteristiche comuni con il Dio cristiano, padre ed eterno. Benché sia impossibile, allo stato attuale, individuare la fonte della citazione, non vi sono validi motivi per screditare l’esplicita testimonianza di Clemente e sospettare dell’attribuzione al ditirambografo, come hanno fatto Page (ad PMG 762: vereor ut recte Melanippidae adscribatur) e, soprattutto, Hansen (1986).[3]

Questo il testo del frammento, secondo la colometria stabilita da Lectius (1614),[4] corredato da un apparato delle fonti e da un apparato critico essenziale:[5]

κλῦθί μοι, ὦ πάτερ, θαῦμα βροτῶν,

τᾶς ἀειζώου ψυχᾶς μεδέων.

Clem. Al. Strom. 5.14.111s. (II 401 s. Stählin) ταυτὶ μὲν οὖν παρείσθω ταῖς τῶν θεάτρων ἀνοίαις· ἄντικρυς δὲ ὁ μὲν Ἡράκλειτος (VS 22 B 1) “τοῦ λόγου τοῦδ’ ἐόντος αἰεὶ” φησὶν “ἀξύνετοι γίγνονται ἄνθρωποι καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον”. ὁ μελοποιὸς δὲ Μελανιππίδης ᾄδων φησίν· “κλῦθί μοι―μεδέων”. Euseb. Praep. evang. 13.13.39 (II 214 Mras) ταυτὶ μὲν οὖν παρείσθω ταῖς τῶν θεάτρων ἀνοίαις. ἄντικρυς δὲ ὁ μὲν Ἡράκλειτος (l.c.)· “τοῦ λόγου τοῦ δέοντος αἰεί”, φησίν, “ἀξύνετοι γίγνονται ἄνθρωποι, καὶ πρόσθεν ἢ ἀκοῦσαι καὶ ἀκούσαντες τὸ πρῶτον”. ὁ μελοποιὸς δὲ Μελανιππίδης ᾄδων φησί· “κλῦθί μοι―βροτῶν”.

1 κλῦθί μοι testt. : κλῦθί μου Stephanus, Lectius | βροτῶν testt. : βροτοῖς Hordern || 2 ψυχᾶς (e ψυχῆς corr. L1) μεδέων Clem. : μεδέων ψυχᾶς Euseb.

In un breve quanto informato contributo sul frammento, Hordern (1998) ha osservato quanto segue:

[I]n line 1 the phrase θαῦμα βροτῶν strikes a false note. The singular θαῦμα, and the plural θαύματα, are found in a number of different constructions: (1) followed by a dative, as at Hes. Th. 500 θαῦμα θνητοῖσι βροτοῖσι, Od. 11.287 θαῦμα βροτοῖσι, h. Hom. 2.403 θαῦμα θνητοῖς τ’ ἀνθρώποις, 4.219, E. I. A. 202 θαῦμα βροτοῖσιν (in lyric); (2) with an infinitive, as at h. Hom. 5.202 θαῦμα ἰδεῖν (E. Ion 1142 θαύματ’ ἀνθρώποις ὁρᾶν appears to be a conflation of these two constructions); (3) more rarely with a preposition, as at h. Hom. 4. 270 μέγα θαῦμα μετ’ ἀθανάτοισι. However, there are no examples of a construction with the genitive with this sense: at E. Ba. 693, for instance, we find θαῦμ’ ἰδεῖν εὐκοσμίας ‘a strange sight for its ordered calm’ (Dodds), where εὐκοσμίας is a genitive of the cause. In view of the parallels, and the probability of assimilation to the following genitive and the participle ending in ‑ων, we should here read βροτοῖς, despite the fact that βροτῶν is given by both sources.[6]

A ben vedere, il fatto che i due testimoni del frammento rechino entrambi la stessa lezione non è significativo, in questo caso, dal momento che Eusebio dipende da Clemente,[6] una circostanza che potrebbe deporre a favore dell’intervento di Hordern. Nondimeno, occorre rilevare che l’uso del genitivo attestato nel v. 1 non è invero privo di paralleli, se si prende in considerazione un sostantivo semanticamente affine a θαῦμα, qual è τέρας: in Il. 11.28 l’arcobaleno è definito τέρας μερόπων ἀνθρώπων, “oggetto di meraviglia per gli uomini”. Qui, come in PMG 762.1, il genitivo sembra assumere un valore ablativale,[7] esprimendo il punto di vista a partire dal quale il fulmine e il dio sono considerati. Pur inusuale, il costrutto non è quindi inattestato e, com’è generalmente accolto nel passo iliadico, andrà mantenuto anche in Melanippide, che potrebbe averlo impiegato come un arcaismo o, quanto meno, come un preziosismo:[8] in ogni caso, uno stilema non inappropriato ad una sezione cletica.

In merito all’identità del dio invocato, Hordern propende per Dioniso sulla base di Ion. fr. eleg. 23.13 W.2 (τῷ σὺ πάτερ Διόνυσε, φιλοστεφάνοισιν ἀρέσκων) e del fatto che “Melanippides was primarily known for his dithyrambs”; lo studioso sospetta, inoltre, che nel v. 2 “we might see an allusion to Orphic-Dionysiac mysteries”.[9] In realtà, l’identificazione risale già a Rohde,[6] che interpretava l’invocazione alla luce della propria tesi secondo cui la fede nell’immortalità dell’anima sarebbe sorta in seno al culto estatico di Dioniso: in questa chiave, il dio invocato come “signore dell’anima che sempre vive” non poteva che essere Dioniso (“Der Anruf galt jedenfalls dem Dionysos”). Oltre a ciò, lo studioso poneva a confronto l’epiteto θαῦμα βροτῶν del v. 1 con Il. 14.325, dove il dio è detto χάρμα βροτοῖσιν, e aggiungeva che “auch denkt man bei einem Dithyramben­dichter am liebsten an diesen Gott”.[10]

Quest’ultimo argomento, comune a Rohde e a Hordern, appare in verità poco cogente: non è assicurato che il carme in questione fosse un ditirambo, e, anche in questo caso, non si può escludere che nella sezione mitica fosse invocata da un personaggio una divinità diversa da Dioniso (si pensi, ad esempio, all’invocazione di Minosse a Zeus in Bacch. 17.52s.). Ora, se si passano in rassegna le occorrenze dell’epiteto πατήρ non accompagnato da un teònimo né precisato da un aggettivo o da un genitivo,[11] si incontrano i paralleli più stretti nell’invocazione rivolta da Apollo a Zeus in Hym. Hom. Merc. 334 (ὦ πάτερ, ἦ τάχα μῦθον ἀκούσεαι οὐκ ἀλαπαδνόν) e,[12] al di fuori di un contesto narrativo, nella preghiera che chiude l’Inno a Zeus di Cleante (SVF I 537.30 ἣν [scil. ἀπειροσύνην] σύ, πάτερ, σκέδασον ψυχῆς ἄπο), nella conclusione del proemio dei Fenomeni di Arato (vv. 15 s. χαῖρε, πάτερ, μέγα θαῦμα, μέγ’ ἀνθρώποισιν ὄνειαρ, / αὐτὸς καὶ προτέρη γενεή), nel congedo dell’Inno a Zeus di Callimaco (v. 94 χαῖρε, πάτερ, χαῖρ’ αὖθι· δίδου δ’ ἀρετήν τ’ ἄφενός τε), ed ancora nell’esordio di [Orph.] H. 48, che celebra Zeus-Sabazio (v. 1 Κλῦθι, πάτερ, Κρόνου υἱέ, κύδιμε δαῖμον). Tutte queste occorrenze, di provenienza e cronologia disparate, sono accomunate dal riferimento a Zeus, per altro invocato nello stoicheggiante proemio di Arato proprio con l’appellativo μέγα θαῦμα (cf. PMG 762.1 θαῦμα βροτῶν):[13] ciò mostra, quanto meno, che una diversa ipotesi di identificazione non può essere esclusa.[14] Non è invece possibile desumere alcuna indicazione in merito al punto del componimento melanippideo in cui l’Anrede compariva.[15]

A favore dell’identificazione del dio invocato con Zeus si possono addurre ulteriori elementi, che riconducono comunque ad un àmbito orfico o, quanto meno, influenzato dall’orfismo. Anzitutto, merita di essere richiamato [Orph.] fr. 426 Bern., forse proveniente da un poema teogonico orfico,[16] in cui si afferma che ψυχὴ δ’ ἀθάνατος καὶ ἀγήρως ἐκ Διός ἐστιν.[17] Non solo Zeus è posto in connessione con l’anima immortale, ma è presentato come principio e origine di quella.[18] A ciò si aggiunga che nell’Ol. 2 di Pindaro, intrisa di riferimenti a credenze orfiche, la via percorsa dall’anima che si è ormai liberata dal ciclo delle reincarnazioni è definita Διὸς ὁδός (v. 70). Qui, come ha rilevato Lavecchia, “Zeus è rapportato alla condizione più elevata attingibile dalle anime: una condizione che, superato il ciclo delle rinascite, doveva consistere nel ricongiungimento dell’αἰῶνος εἴδωλον [= ψυχή, Pind. fr. 131 b Sn.-M.] con il proprio fondamento, con il θεός = τὸ πάν (Pind. frg. 140 d Sn.-M.), lo Zeus visto come fondamento divino dell’anima”.[19] È lo stesso Pindaro, del resto, che in un threnos (fr. 137 Sn.-M.) definisce ὄλβιος colui che “viste quelle cose va sotterra: / conosce la meta ultima della vita, / conosce il principio donato da Zeus (διόσδοτον ἀρχάν)”. Come chiarisce il testimone del frammento, Clemente Alessandrino (Strom. 3.3.17), la persona “beata” altri non è che l’iniziato ai misteri eleusini (v. 1 κεῖνα), il quale, grazie alla conoscenza che questi gli assicurano, sa in che cosa consista la morte e in che cosa il principio divino della vita, presente nell’uomo e capace di sopravvivere alla morte del corpo.[20] Questa coscienza di un’origine divina dell’anima è esibita da diverse laminette orfiche (cf. I A2.7; B7.6; II A1.3; A2.3; B1.3 Pugliese Carratelli), in cui l’anima dichiara di avere un γένος οὐράνιον.[21] In questa prospettiva, ha suggerito Lavecchia, la “via di Zeus” poteva rappresentare non solo la via percorsa da Zeus e che porta l’anima all’Isola dei Beati, ma forse anche “la via che conduce a Zeus [...]; l’Isola dei Beati poteva rispecchiare la dimensione urania in cui le anime sono ricongiunte al proprio fondamento divino” (si ricordi [Orph.] fr. 426 Bern. ψυχὴ δ’ ἀθάνατος καὶ ἀγήρως ἐκ Διός ἐστιν).[22]

Oltre che come principio divino dell’anima, Zeus era considerato dagli Orfici anche come sovrano e ordinatore del cosmo, già a partire dall’Inno a Zeus noto al commento trasmesso da P. Derv.: ivi il dio è definito βασιλεύς e ἀρχὸς ἁπάντων (col. 17.2 = [Orph.] fr. 14.4 Bern.), come pure in varî altri frammenti orfici (4; 31.7; 243.6; 300; 852 Bern.).[23] Una menzione a parte meritano Eur. fr. inc. sed. 912 K. (= [Orph.] fr. 458 Bern.),[24] dov’è invocato come μεδέων πάντων un dio che riunisce le caratteristiche di Zeus e Hades (Zeus ctonio?),[25] e lo Hieros logos rivolto a Museo ([Orph.] fr. 377 Bern.), in cui il dio supremo è definito semplicemente ὁ μεδέων (v. 16): nel primo caso, il carattere orfico non può considerarsi sicuro,[26] mentre nel secondo occorre tenere presente che il componimento è stato prodotto in un contesto giudeo-ellenistico e tradisce pertanto chiare influenze della cultura ebraica (a partire dall’affermazione dell’esistenza di un unico dio, corrispondente allo Zeus orfico).[27] Queste due testimonianze richiedono pertanto di essere considerate con grande cautela.

Alla luce dei tratti sopra evidenziati, non appare fuori luogo proporre che il dio invocato in PMG 702 come τᾶς ἀειζώου ψυχᾶς μεδέων possa essere lo Zeus orfico: ἀρχή divina dell’anima e signore di tutto il cosmo, questa figura merita di essere presa in considerazione non meno che Dioniso Λύσειος o Λυσεύς, ‘Liberatore’ dell’anima dal ciclo delle reincarnazioni (cf. e. g. [Orph.] fr. 350.4s. Bern. σὺ δὲ τοῖσιν ἔχων κράτος, οὕς κ’ ἐθέλῃσθα, / λύσεις ἔκ τε πόνων χαλεπῶν καί ἀπείρονος οἴστρου).[28] Il fatto che il padre per eccellenza sia Zeus anche nella tradizione orfica (cf. e. g. [Orph.] fr. 300 Bern. κραῖνε μὲν οὖν Ζεὺς πάντα πατήρ, Βάκχος δ’ ἐπέκραινε) sembrerebbe peraltro favorire la prima ipotesi sulla seconda. Giusta questa identificazione, l’epiteto θαῦμα βροτῶν potrebbe riferirsi alla natura prodigiosa del dio orfico, πρῶτος e ὕστατος, come recita il v. 1 del citato Inno a Zeus: ultimo nato, da lui tutto rinasce nel momento in cui inghiotte Phanes o il pene di Urano (cf. P. Derv. col. 16.1 = [Orph.] fr. 12 Bern.).[29] Si ricordi, del resto, che μέγα θαῦμα è una delle “espressioni proprie del lessico misterico”:[30] a questo lessico il semplice θαῦμα potrebbe qui alludere, caricandosi pertanto di una connotazione misterica.

Merita, infine, di essere richiamato un ulteriore elemento a conforto del carattere orfico dei versi melanippidei. La iunctura ἀείζωος ψυχή, per cui non esistono altre attestazioni in età classica, trova il parallelo più stretto in un anonimo epigramma sepolcrale del II sec. d.C., proveniente dalla località sabina di Scandriglia (IG XIV 2241.3s. = Peek, GVI 1763.3s.) e riconducibile ad un ambiente orfico o pitagorico.[31] Ivi si legge: ψυχὴ γὰρ ἀείζ[ως,]/ἣ τὸ ζῆν παρέχει καὶ θεόφιν κατέβη.[32]

Non si dovrà poi trascurare che negli scarni resti dell’opera di Melanippide vi è anche un’altra convergenza con l’orfismo: si tratta dell’identificazione di Demetra con la Madre degli dèi (PMG 764), un’assimila­zione che trova riscontro in altre fonti poetiche d’età classica (cf. Pind. Isthm. 7.3, fr. 70 b.8s.; Eur. Hel. 1301 s.; Telest. PMG 809; vd. inoltre Mel. adesp. PMG 935), spesso in connessione con le “τελεταί mistiche, in cui questa συνοικείωσις appare come elemento tipico”.[33] In àmbito orfico, in particolare, essa è attestata già in età classica: il commentario trasmesso da P. Derv. mostra che l’assimilazione tra Demetra e altre divinità femminili analoghe (Gea, Estia, Madre degli dèi, Rea) era presente nella teogonia orfica commentata (col. XXII 7 = [Orph.] fr. 398 Bern.).[34] Come altri poeti del suo tempo, Melanippide partecipa pienamente di una temperie religiosa in cui i culti misterici acquisiscono sempre maggiore rilevanza, più che mai all’indomani della pestilenza del 430 a.C., con l’allentamento dei vincoli della religione civica tradizionale e la diffusione di culti stranieri e di pratiche magiche.[35] In quella fase di crisi, la promessa di una vita beata nell’Aldilà doveva esercitare un’attrattiva vieppiù forte: l’invocazione al “signore dell’anima che sempre vive” andrà inquadrata in questo contesto.

Ringraziamenti

Mi sia consentito ringraziare per i preziosi consigli e le indicazioni che mi hanno elargito Giovanna Alvoni, Alberto Bernabé, Franco Ferrari e Camillo Neri.

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Published Online: 2020-05-19
Published in Print: 2020-11-04

© 2020 Marco Ercoles, published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

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