Skip to content
BY 4.0 license Open Access Published by De Gruyter (A) October 6, 2020

Alcune osservazioni su naturae species ratioque nel De rerum natura di Lucrezio (e una nota al testo)

  • Luca Beltramini EMAIL logo
From the journal Philologus

Abstract

The article proposes to re-examine the Lucretian formula naturae species ratioque (1.146–148 = 2.59–61 = 3.91–93 = 6.39–41), the meaning of which has prompted some critical debate. The examination begins from an analysis of rhetoric and argument in the sections in which the phrase occurs, with the goal of demonstrating that the meaning ‘rational vision of nature’ is more apt to the context and to Lucretius’ poetic and philosophical programme, which often relies on metaphors drawn from the semantic field of vision to describe the comprehension of natural phenomena and the didactic aim of the work. In the light of this, the final part of the paper discusses the textual problem concerning lines 6.56–57 (= 90–91), which are normally considered spurious but which can be understood better in the light of the Lucretian conception of philosophy (and of poetry) as penetrating vision.

Nell’ambito del dibattito sulla ricorrenza di versi identici nel De rerum natura (da qui in poi DRN), un rilievo particolare ha assunto la triade[1] che compare per la prima volta a 1.146–148:

hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest

non radii solis neque lucida tela diei

discutiant, sed naturae species ratioque.

La sequenza ricorre altre tre volte nel poema (2.59–61; 3.91–93; 6.39–41), e in ognuna di queste sedi è preceduta dalla famosa tetrade che paragona gli uomini a bambini immersi nelle tenebre, impauriti dai pericoli che immaginano acquattati nell’ombra.

nam ueluti pueri trepidant atque omnia caecis

in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus

interdum, nihilo quae sunt metuenda magis quam

quae pueri in tenebris pauitant finguntque futura.

L’eptade che ne risulta offre un efficace compendio del messaggio di liberazione universale di cui l’Epicureismo si faceva portatore. La triade, in particolare, assume i tratti di una sorta di γνώμη, una prescrizione (necessest) che segnala l’importanza e la complessità dell’obiettivo che il DRN si propone. Proprio la concisione e l’efficacia della sequenza suggerisce che la sua ripetizione in queste diverse sedi sia il frutto di una deliberata scelta di Lucrezio e non, come è stato sostenuto, il riflesso dello stato incompiuto dell’opera o il risultato di interpolazioni.[2] È noto, infatti, che già Epicuro sosteneva l’opportunità di condensare il proprio messaggio in forme compendiate, addirittura in aforismi che i discepoli potessero facilmente mandare a memoria, interiorizzando così i capisaldi della dottrina.[3] Che l’eptade rappresenti il tentativo di Lucrezio di seguire questa pratica è suggerito, tra le altre cose, dal parallelo con un frammento del libro 14 del trattato epicureo Sulla natura, che individua nello studio della fisica la via migliore per fugare i timori (frg. 29.3.6–9 2Arrighetti = PHerc. 1148 cd. c: ἐ ἐν τῆι περὶ φύ- / σε[ως θεωρί]αι ἀπαλλαγή- / σο[νται τῆς σ]υμ[φ]ύτου αὐ- / τ[αῖς φρίκη]ς). L’idea rappresentò certamente un Leitmotiv della fisiologia epicurea, tanto da essere sintetizzata in una delle κύριαι δόξαι (12 Οὐκ ἦν τὸ φοβούμενον λύειν ὑπὲρ τῶν κυριωτάτων μὴ κατειδότα τίς ἡ τοῦ σύμπαντος φύσις, ἀλλ’ ὑποπτεύοντά τι τῶν κατὰ τοὺς μύθους· ὥστε οὐκ ἦν ἄνευ φυσιολογίας ἀκεραίους τὰς ἡδονὰς ἀπολαμβάνειν).[4]

Questi due paralleli dimostrano che con l’espressione naturae species ratioque Lucrezio ha inteso rendere il termine φυσιολογία, proponendone una precisazione e al contempo un ampliamento.[5] Se, infatti, ratio ricalca perfettamente il λόγος implicito nell’originale greco,[6] l’altro elemento costitutivo della formula, species, suggerisce al lettore una dimensione ulteriore, evidentemente legata alla specifica impresa poetica che Lucrezio si prefiggeva. Sul preciso significato da attribuire al termine, tuttavia, la critica si è trovata divisa. Due sono state le principali proposte esegetiche:

  1. species indica l’attività del contemplare (assimilabile al concetto greco di θεωρία) e ratio la sua componente razionale. La locuzione indica perciò ‘la contemplazione della natura e la sua spiegazione razionale’.[7]

  2. species e ratio sono termini speculari, che designano rispettivamente l’aspetto esteriore della natura, di cui il poema dà magnifica rappresentazione, e la legge interna che la regola.[8]

Non sono mancate proposte di compromesso, che hanno giustamente messo in luce proprio la densità della formula, riflesso della complessa opera di trasformazione culturale alla base del uertere lucreziano.[9] Pur riconoscendo la necessità di evitare troppo rigide distinzioni semantiche nel valutare questa formula, nella discussione seguente tenterò di mostrare che la prima soluzione esegetica è più armonica al contesto in cui la triade compare nei vari libri e, soprattutto, più coerente all’imagery della visione che Lucrezio impiega a più riprese per descrivere la propria operazione poetico-filosofica.

L’impiego di uerba uidendi per descrivere atti intellettuali complessi è documentato già negli scritti di Epicuro,[10] ma per chiarire il significato peculiare di naturae species ratioque è necessario partire dal contesto più prossimo in cui la triade ricorre, ossia la tetrade che la precede in tutti i casi salvo uno. Che la triade sia stata originariamente concepita in connessione a questi quattro versi è dato ormai assodato.[11] A suggerirlo è la coerenza del passo complessivo: come si è accennato, nei primi quattro versi Lucrezio paragona gli uomini ignari della dottrina epicurea a bambini che, immersi caecis / in tenebris, hanno paura di ciò che non riescono a vedere. I timori degli uomini sono tanto vani quanto quelli dei bambini, ma più pericolosi perché si producono in piena luce (in luce).[12] Il senso del paragone è immediatamente chiarito dalla triade: le tenebre in cui gli uomini sono immersi sono tutte interiori (terrorem animi tenebrasque) e non possono perciò essere diradate dai raggi del sole, ma soltanto, appunto, dalla naturae species ratioque.

L’eptade si basa perciò su una dialettica tra interiorità ed esteriorità:[13] se le tenebre di cui l’uomo è vittima non sono esteriori, ma interiori, è nella sua interiorità che la liberazione deve avvenire. Alla luce di questo contesto, Giancotti ha difeso l’interpretazione di naturae species ratioque come “l’aspetto e l’intima legge della natura” individuando in questa espressione ciò che agli occhi di Lucrezio può giungere nella profondità dell’animo umano e dissiparne le tenebre, in opposizione ai radii solis e ai lucida tela diei, agiscono soltanto all’esterno.[14] Quest’interpretazione, tuttavia, mi sembra soltanto parzialmente coerente al complesso quadro offerto da Lucrezio nell’eptade e, soprattutto, all’imagery sottintesa alla similitudine dei bambini immersi nelle tenebre. Quest’ultima, infatti, è tutta basata sull’antitesi tra capacità e incapacità di vedere: le tenebre che circondano i bambini sono caecae, impediscono loro di vedere, e proprio a causa di questa impossibilità essi immaginano (fingunt) minacce nascoste. Se gli uomini sono preda degli stessi timori alla luce del sole è solo perché anche le tenebre dell’animo sono caecae, impediscono di vedere le cause più intime dei fenomeni. La soluzione, perciò, non può che essere una visione in grado di squarciare l’oscurità che nemmeno i raggi del sole possono disperdere. Naturae species ratioque, dunque, dovrebbe essere considerata un’endiadi, traducibile come ‘visione razionale della natura’, che sintetizza l’obiettivo della poesia filosofica di Lucrezio: dotare i lettori di una visione più acuta, una species che riesca, attraverso la ratio, a scorgere nella profondità dei fenomeni le loro cause prime e, perciò, a liberare l’uomo dalla sua caecitas interiore. Questa ipotesi, credo, ha il pregio di dare conto dell’insistenza di Lucrezio non soltanto sull’interiorità, ma soprattutto sul ruolo attivo rivestito dal discepolo nel processo di liberazione, che non può provenire dall’esterno ma deve scaturire da un atto di volontà.[15] E proprio nei diversi contesti in cui la triade ricorre questo ruolo attivo del lettore è espresso invariabilmente da verbi che esprimono una visione penetrante delle cose, una species.

Libro 1

A puntare verso questa interpretazione è innanzitutto il contesto del libro 1, l’unica sede, cioè, in cui la triade compare senza la tetrade. Poco prima della triade, Lucrezio ha presentato al suo lettore un compendio del contenuto del DRN (1.127–135), insistendo proprio sulla necessità che gli uomini colgano appieno l’intima natura delle cose (e in particolare l’anima e l’animus). La sezione è seguita dalla celebre dichiarazione poetica nella quale Lucrezio lamenta la difficoltà dei Graiorum obscura reperta che si propone di inlustrare Latinis uersibus, ma si dice al contempo felice di intraprendere questa impresa per permettere al suo discepolo, Memmio, di raggiungere la comprensione della natura (1.136–145). A questo punto è introdotta la triade:

quapropter bene cum superis de rebus habenda

nobis est ratio, solis lunaeque meatus

qua fiant ratione, et qua ui quaeque gerantur 130

in terris, tum cum primis ratione sagaci

unde anima atque animi constet natura uidendum,

et quae res nobis uigilantibus obuia mentes

terrificet morbo adfectis somnoque sepultis,

cernere uti uideamur eos audireque coram,

morte obita quorum tellus amplectitur ossa. 135

Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta

difficile inlustrare Latinis uersibus esse,

multa nouis uerbis praesertim cum sit agendum

propter egestatem linguae et rerum nouitatem;

sed tua me uirtus tamen et sperata uoluptas 140

suauis amicitiae quemuis efferre laborem

suadet et inducit noctes uigilare serenas

quaerentem dictis quibus et quo carmine demum

clara tuae possim praepandere lumina menti,

res quibus occultas penitus conuisere possis. 145

hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest

non radii solis neque lucida tela diei

discutiant, sed naturae species ratioque.

Da più parti è stato osservato che, collocata in questo contesto, la triade perde gran parte della sua coerenza logica. Nei passi in cui essa segue la tetrade, la sua funzione di conclusione del precedente ragionamento (igitur) è evidente: gli uomini nutrono alla luce gli stessi timori nutriti da bambini nelle tenebre, perciò è necessario che queste paure siano fugate non dalla luce del sole ma dalla naturae species ratioque. In mancanza della tetrade, la connessione argomentativa con quanto precede appare più labile, e in virtù di questa difficoltà diversi critici l’hanno giudicata interpolata.[16] Ma proprio l’interpretazione di naturae species ratioque come ‘visione razionale della natura’ permette di cogliere la coerenza complessiva del passaggio.

La sezione è scandita in tre momenti: i. enunciazione della necessità di comprendere il funzionamento intimo della natura; ii. difficoltà dell’impresa poetica; iii. nuova enunciazione della necessità filosofica della conoscenza (triade). I tre segmenti sono tenuti insieme da una potente rete metaforica, giocata non soltanto sull’antitesi luce/tenebre, ma soprattutto su un’idea della conoscenza come atto di visione penetrante e veridica, in contrapposizione alla ‘cecità’ delle false opinioni. Nel primo momento (127–135) Lucrezio osserva che la legge che regola i fenomeni deve essere sì posseduta (habenda nobis est ratio), ma soprattutto ‘vista’ attraverso l’uso della ragione (130–131 ratione sagaci ... uidendum);[17] solo questa visione mentale permette di correggere e superare le false opinioni sull’immortalità dell’anima che nascono dall’errata interpretazione delle nostre sensazioni, dai fantasmi che ‘crediamo di vedere’ (134 cernere uti uideamur) e sentire quando giacciamo malati o addormentati. È questa necessità a suggerire al poeta la riflessione sull’importanza di ottenere questa visione anche attraverso gli strumenti della poesia (136–145); la dichiarazione poetica prosegue la linea espressiva tracciata dai versi precedenti, attingendo al campo semantico di luce e tenebre (136–137 Graiorum obscura reperta / difficile inlustrare Latinis uersibus esse) e, soprattutto, individuando l’obiettivo della fatica poetica in un atto di illuminazione che permette al discepolo di ‘vedere fino in fondo’ le res occultas (140–148).[18] Il frequentativo conuiso, di uso limitatissimo al di fuori del DRN,[19] esprime uno scrutare acuto e penetrante, che giunge a vedere profondità normalmente precluse alla vista umana. È proprio a questa visione penetrante e razionale – penetrante ‘in quanto’ razionale – che Lucrezio si riferisce con l’espressione naturae species ratioque, che conclude la rete metaforica di uerba uidendi di cui la sezione è intessuta; igitur si connette ai versi che precedono la digressione sulla poesia, riproponendo in forma ancor più efficace la necessità di una visione razionale che soppianti le illusorie visioni citate nel primo momento (132–135). Dal punto di vista argomentativo, insomma, la triade svolge una funzione di cerniera: riprende il filo del ragionamento interrotto dalla digressione sulla poesia, lo suggella in un’efficace sententia conclusiva e lo connette alla sezione successiva, che inaugura la trattazione vera e propria.[20]

Diversi altri passaggi del libro 1 confermano l’opportunità di interpretare species come ‘visione’. Il filone tematico inaugurato da questa sezione ricorre in un’altra dichiarazione programmatica: il famoso paragone tra la poesia e il miele con cui i medici cospargono i bordi del bicchiere per somministrare una medicina amara ai bambini (1.921–950):[21]

deinde quod obscura de re tam lucida pango

carmina, musaeo contingens cuncta lepore 934

...

si tibi forte animum tali ratione tenere

uersibus in nostris possem, dum perspicis omnem

naturam rerum qua constet compta figura. 950

La sezione ripropone la dialettica tra luce e tenebre e, soprattutto, tra vedere e non vedere;[22] il ‘dolce miele delle muse’ è considerato un mezzo attraverso il quale il lettore può ‘osservare in profondità’ l’intera natura dell’universo (si noti l’uso di perspicio, corradicale di species).

In effetti, l’idea che la fisiologia epicurea offra la possibilità di ‘vedere’ ciò che altrimenti sarebbe invisibile (gli ἄδηλα) pervade il DRN a tutti i livelli, dalla costruzione retorico-argomentativa, fondata in gran parte sull’analogia, alle scelte stilistiche, che mettono al servizio dell’argomentazione metafora e similitudine.[23] Si tratta evidentemente di una questione centrale per una dottrina fondata sull’idea che la conoscenza della realtà sia affidata ai sensi e che, al contempo, tutta la materia sia composta di corpi invisibili.[24] Come si accennava, lo stesso Epicuro si riferisce alla necessità di inferire conclusioni su ciò che non possiamo percepire con verbi della vista, come συνορᾶν (ad es. Epicurus Ep. Hdt. 38.7–8 ταῦτα δὲ διαλαβόντας συνορᾶν ἤδη περὶ τῶν ἀδήλων)[25] o συνθεωρεῖν (ad es. Epicurus Ep. Pyth. 102.3–5 καὶ κατ’ ἄλλους δὲ πλείους τρόπους ῥᾳδίως ἔσται καθορᾶν ἐχόμενον ἀεὶ τῶν φαινομένων καὶ τὸ τούτοις ὅμοιον δυνάμενον συνθεωρεῖν).[26] Ma la ricorrenza del tema nell’apologia della poesia dimostra che nel caso del DRN la questione assume una valenza più specificamente poetica, dal momento che l’acquisizione di questa visione chiara e penetrante rappresenta la condizione da cui dipende la possibilità stessa di scrivere una poesia davvero epicurea, senza cadere nell’errore di chi crede, come i seguaci di Eraclito, che per mostrare ciò che sfugge alla vista sia necessario ricorrere a inuersa uerba, a parole altrettanto oscure: 1.641–644 omnia enim stolidi magis admirantur amantque / inuersis quae sub uerbis latitantia cernunt, / ueraque constituunt quae belle tangere possunt / auris, et lepido quae sunt fucata sonore.

Le sezioni argomentative del poema insistono sulla necessità di sopperire con la ragione (e con la poesia) ai limiti dei nostri sensi. La dimostrazione dell’esistenza degli atomi (1.265–328) si basa sull’idea che alcuni fenomeni che vediamo possono essere spiegati soltanto se ammettiamo l’esistenza di particelle invisibili,[27] come quando una veste bagnata si inumidisce e si asciuga per effetto dell’assorbimento o della perdita di particelle d’acqua, o un anello si consuma perché i suoi costituenti a poco a poco si disperdono:

Denique fluctifrago suspensae in litore uestes 305

uuescunt, eaedem candenti sole serescunt.

at neque quo pacto persederit umor aquai

uisumst nec rursum quo pacto fugerit aestu.

in paruas igitur partis dispargitur umor,

quas oculi nulla possunt ratione uidere. 310

...

strataque iam uolgi pedibus detrita uiarum 315

saxea conspicimus; tum portas propter aena

signa manus dextras ostendunt adtenuari

saepe salutantum tactu praeterque meantum.

haec igitur minui, cum sint detrita, uidemus;

sed quae corpora decedant in tempore quoque, 320

inuida praeclusit speciem natura uidendi.

Postremo quaecumque dies naturaque rebus

paulatim tribuit, moderatim crescere cogens,

nulla potest oculorum acies contenta tueri;

nec porro quaecumque aeuo macieque senescunt 325

{nec, mare quae impendent, uesco sale saxa peresa}

quid quoque amittant in tempore cernere possis:

corporibus caecis igitur natura gerit res.

L’uso di species ai vv. 320–321 è particolarmente illuminante.[28] Se l’inuida natura[29] non ci ha concesso una species uidendi in grado di scorgere gli elementi costitutivi della materia (da notare il gioco etimologico inuida ... uidendi),[30] tutto quello che l’uomo può fare per comprendere l’universo è ricorrere alla ratio, che colma le lacune dei suoi sensi. Quest’idea è esplicitata poco dopo, al temine della dimostrazione dell’esistenza del vuoto, quando Lucrezio identifica, ancora una volta, lo strumento della sua ricerca nella ratio sagax (1.368–369):

est igitur nimirum id quod ratione sagaci

quaerimus, admixtum rebus, quod inane uocamus.

Anche la celebre immagine del pulviscolo che vortica in un raggio di luce (2.114–131) usata per illustrare il moto degli atomi insiste nell’offrire al lettore la possibilità di vedere ciò che altrimenti sarebbe invisibile (114 contemplator enim; 116–117 multa minuta modis multis per inane uidebis / corpora misceri; 127–130 quod tales turbae motus quoque materiai / significant clandestinos caecosque subesse. / multa uidebis enim plagis ibi percita caecis / commutare uiam). Lo stesso codice espressivo ritorna ancor più precisamente nel caso di altri fenomeni molto lontani dalla nostra esperienza sensibile, come il fulmine, le cui cause sono indagate in una sezione del libro 6 particolarmente elaborata (6.219–422). La trattazione è chiusa da una polemica antireligiosa, in cui Lucrezio confuta la credenza che il fulmine sia l’attributo di Giove e che in esso gli uomini possano scorgere i segni della volontà divina grazie all’ars fulguralis. Nei versi che aprono la polemica (6.379–382), i carmina degli indovini sono posti in sprezzante contrasto con la trattazione sistematica e razionale del fenomeno, che permette di ‘guardare dentro la natura stessa del fulmine’:

Hoc est igniferi naturam fulminis ipsam

perspicere et qua ui faciat rem quamque uidere, 380

non Tyrrhena retro uoluentem carmina frustra

indicia occultae diuum perquirere mentis.

Un altro corradicale di species, prospicio, ricorre nell’esortazione al lettore a ‘guardare oltre’ le mura del mondo, senza lasciarsi vincere dalla meraviglia destata dai ‘luminosi templi del cielo’ (2.1023–1047). Un’esortazione in cui non a caso è riproposta la stessa dialettica tra passività e attività vista in precedenza: l’annuncio della noua species (qui sì, nel significato di ‘aspetto’) che la dottrina di Epicuro dispiegherà davanti agli occhi del lettore è seguito da un invito a non lasciarsi spaventare dalla novità, a usare la ratio per superare con lo sguardo i limiti apparenti delle cose:

nam tibi uehementer noua res molitur ad auris

accidere et noua se species ostendere rerum. 1025

...

quam tibi iam nemo fessus satiate uidendi,

suspicere in caeli dignatur lucida templa!

desine quapropter nouitate exterritus ipsa 1040

expuere ex animo rationem, sed magis acri

iudicio perpende, et si tibi uera uidentur,

dede manus, aut, si falsum est, accingere contra.

quaerit enim rationem animus, cum summa loci sit

infinita foris haec extra moenia mundi, 1045

quid sit ibi porro quo prospicere usque uelit mens

atque animi iactus liber quo peruolet ipse.

Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Tornando ora al contesto in cui la triade compare nel libro 1, ulteriori indizi in favore dell’interpretazione di species come ‘visione’ provengono dai versi che immediatamente la seguono. Dopo aver dichiarato la necessità che le tenebre dell’animo siano dissipate grazie alla naturae species ratioque, Lucrezio enuncia il principio basilare della fisiologia epicurea, nullam rem e nihilo gigni diuinitus umquam (1.150), e prosegue con una rappresentazione impietosa dei mortali che, ignari di questo principio, osservano intimoriti i fenomeni naturali e li attribuiscono alla volontà degli dèi (1.146–158):

hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest

non radii solis neque lucida tela diei

discutiant, sed naturae species ratioque.

principium cuius hinc nobis exordia sumet,

nullam rem e nihilo gigni diuinitus umquam. 150

quippe ita formido mortalis continet omnis,

quod multa in terris fieri caeloque tuentur,

quorum operum causas nulla ratione uidere

possunt ac fieri diuino numine rentur. 154

quas ob res ubi uiderimus nil posse creari 156

de nihilo, tum quod sequimur iam rectius inde

perspiciemus, et unde queat res quaeque creari 158

et quo quaeque modo fiant opera sine diuom. 155

Il passo si fonda su un uso evocativo e consapevole dei uerba uidendi, che delineano una potente opposizione tra visione veridica e visione fallace. Gli uomini ‘osservano’ (v. 152 tuentur) i fenomeni che si producono in cielo e in terra, ma non sono capaci di ‘vedere’ davvero le loro cause profonde (v. 153 uidere), e da questa cecità, cioè dall’ignorantia causarum, nasce la paura che li tiene imprigionati. È perciò necessario che la loro percezione sia direzionata dalla ragione (in questo caso il principio del nihil de nihilo) così che possano ‘scrutare fino in fondo’ i meccanismi intimi della natura (156–157 rectius inde / perspiciemus). L’aderenza alla tradizione epicurea di questa contrapposizione tra visione scientifica e cecità è confermato da un passo di Polistrato, in cui proprio l’ἀβλεψία degli uomini è individuata come la ‘causa prima di tutti i mali’.[31] Va da sé che l’interpretazione di species come aspetto esteriore del fenomeno depotenzia notevolmente la coerenza logica del passo: l’attenzione del poeta non è focalizzata sull’aspetto epidermico della natura, sul suo ‘darsi’ ai nostri sensi, ma piuttosto sulla necessità che il lettore superi, per così dire, l’esteriorità del fenomeno e ne veda le cause profonde grazie alla ragione.[32]

Naturalmente, in tutti i passi visti finora l’opposizione tra questa visione razionale e la visione superficiale rimane su un piano strettamente metaforico: essa non implica una svalutazione del dato sensibile, che, come accennato, rappresenta per l’Epicureismo un criterio di verità fondamentale, ma denuncia piuttosto l’incapacità dell’uomo di interpretare correttamente le proprie percezioni.[33] Quando Lucrezio descrive l’ignoranza degli uomini come cecità e afferma di offrire ai suoi lettori una nuova capacità di vedere, si riferisce all’atto cognitivo nel suo complesso, a una visione mentale che si fonda sulla corretta (e razionale) interpretazione dei dati che cogliamo grazie alla vista propriamente detta e, più in generale, ai sensi.

È possibile ora tracciare un bilancio di quanto osservato fin qui su questa sezione del libro 1. Tra l’enunciazione dell’argomento del poema e l’inizio della trattazione vera e propria, Lucrezio colloca una sequenza che enuncia: (a) la necessità di una visione razionale per la comprensione della materia del poema (127–135); (b) la ricerca di uno stile e di un vocabolario che permetta al lettore di ‘scorgere le cose nascoste’ (136–145); (c) la necessità che i terrori e le tenebre dell’animo siano dissipati da una visione razionale (146–148, la triade suggellata da naturae species ratioque); (d) il principio fondante del materialismo atomistico, unico rimedio all’incapacità dei mortali di vedere davvero le cause profonde dei fenomeni (149–158). L’argomento più convincente in favore dell’interpretazione di naturae species ratioque sta proprio in questa coerente progressione tematica, che spiega anche la scelta di Lucrezio di ripetere in questa sede la triade svincolandola dalla precedente similitudine dei pueri in tenebris.

Libri 2, 3 e 6

Altrettanto rivelatori sono i contesti in cui l’intera eptade compare nei libri seguenti. Nel proemio del libro 2 Lucrezio raffigura i saggi che dall’alto guardano gli uomini affannarsi alla ricerca di gloria e ricchezza, ignari di quale sia il vero fine della vita umana: il piacere che deriva dalla soddisfazione dei bisogni necessari e l’assenza di ogni turbamento. Questa potente raffigurazione è interamente basata sulla semantica della visione. Per esaltare l’acquisizione della saggezza epicurea, Lucrezio ricorre a una Priamel fondata su una gradazione di scene ‘viste’ (2.1–13):[34]

Suaue, mari magno turbantibus aequora uentis, 1

e terra magnum alterius spectare laborem,

non quia uexari quemquamst iucunda uoluptas,

sed quibus ipse malis careas quia cernere suaue est.

suaue etiam belli certamina magna tueri 6

per campos instructa tua sine parte pericli; 5

sed nil dulcius est, bene quam munita tenere 7

edita doctrina sapientum templa serena,

despicere unde queas alios passimque uidere

errare atque uiam palantis quaerere uitae, 10

certare ingenio, contendere nobilitate,

noctes atque dies niti praestante labore

ad summas emergere opes rerumque potiri.

Attraverso una costellazione di uerba uidendi, la Priamel compie un movimento dal vedere propriamente detto (2 spectare, 6 tueri) alla contemplazione filosofica dei saggi che, metaforicamente assisi nei templa serena, guardano in basso (9 despicere ... uidere) i travagli a cui gli uomini si condannano per ignoranza. Quest’umanità inconsapevole del vero bene è subito dopo rappresentata preda della cecità, secondo l’immagine ormai consueta (2.14–19):

o miseras hominum mentes, o pectora caeca!

qualibus in tenebris uitae quantisque periclis 15

degitur hoc aeui quodcumquest! nonne uidere

nihil aliud sibi naturam latrare, nisi utqui

corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur

iucundo sensu cura semota metuque?

Questa cecità mentale è nuovamente esemplificata dall’opposizione tra due diverse ‘visioni’: [35] da un lato quella razionale, che ci permette di constatare che il corpo ha bisogno di soddisfare solo i bisogni naturali (2.20–21 ergo corpoream ad naturam pauca uidemus / esse opus omnino), dall’altro quella offuscata dalle nostre false opinioni, che ci spinge a sperare che la semplice vista di un esercito o di una flotta basti a fugare le nostre paure (2.40–54). Al paradosso segue un nuovo richiamo alle tenebre a cui siamo condannati a causa delle nostre false opinioni e alla necessità che esse siano diradate dalla ratio, e a questo punto è introdotta l’eptade (53–58):

quid dubitas quin omnis sit haec rationis potestas,

omnis cum in tenebris praesertim uita laboret?

nam ueluti pueri trepidant atque omnia caecis 55

in tenebris metuunt, sic nos in luce timemus

interdum, nihilo quae sunt metuenda magis quam

quae pueri in tenebris pauitant finguntque futura.

hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest

non radii solis neque lucida tela diei 60

discutiant, sed naturae species ratioque.

È difficile pensare che con naturae species ratioque Lucrezio alluda qui al ‘darsi della natura’ e ai suoi meccanismi: la sezione non fa cenno a fenomeni naturali,[36] e l’intera argomentazione è tesa a dimostrare la necessità che l’uomo compia uno sforzo razionale per dissipare le false credenze (le tenebrae) e acquisire la corretta cognizione delle cose che può condurlo alla saggezza. Come visto nel libro 1, inoltre, la formula porta alla sua naturale conclusione la rete di uerba uidendi che precede, e richiama, in un’efficace costruzione a cornice, il verbo spectare al v. 2.[37]

Ma gli argomenti più decisivi per l’interpretazione di naturae species ratioque sono forniti dal contesto in cui la formula compare nei libri 3 (87–93) e 6 (35–41). Nel libro 3 l’eptade funge da cerniera tra il syllabus (31–86) che annuncia il tema del libro – le paure degli uomini, e in particolare il timore della morte – e l’inizio della trattazione vera e propria, che si apre al v. 94 (primum). Nel proemio del libro, immediatamente precedente al syllabus, Lucrezio racconta con inusuali accenti autobiografici la propria illuminazione filosofica:

tu, pater, es rerum inuentor, tu patria nobis

suppeditas praecepta, tuisque ex, inclute, chartis, 10

floriferis ut apes in saltibus omnia libant,

omnia nos itidem depascimur aurea dicta,

aurea, perpetua semper dignissima uita.

nam simul ac ratio tua coepit uociferari

naturam rerum, diuina mente coorta, 15

diffugiunt animi terrores, moenia mundi

discedunt. totum uideo per inane geri res.

apparet diuum numen sedesque quietae,

quas neque concutiunt uenti nec nubila nimbis

aspergunt neque nix acri concreta pruina 20

cana cadens uiolat semperque innubilus aether

integit et large diffuso lumine ridet.

omnia suppeditat porro natura, neque ulla

res animi pacem delibat tempore in ullo.

at contra nusquam apparent Acherusia templa, 25

nec tellus obstat quin omnia dispiciantur,

sub pedibus quaecumque infra per inane geruntur.

his ibi me rebus quaedam diuina uoluptas

percipit atque horror, quod sic natura tua ui

tam manifesta patens ex omni parte retecta est. 30

Il proemio, mi pare, chiarisce perfettamente il senso di naturae species ratioque. L’illuminazione di Lucrezio è sì il risultato di uno svelamento della natura nel suo aspetto sensibile (30 tam manifesta patens ex omni parte retecta est), ma coincide soprattutto con una cognizione attiva dei fenomeni, espressa dai due uerba uidendi posti in posizione rilevata: uideo, tra cesura pentemimera ed eftemimera al v. 17, e dispiciantur, in chiusura del v. 26. Entrando in contatto con la parola salvifica di Epicuro, il poeta ha acquisito la capacità di guardare al di là dei limiti sensibili (16–17 moenia mundi / discedunt; 26 nec tellus obstat), di scrutare nel vuoto l’infinito prodursi delle cose, e l’acquisizione di questa visione penetrante è scaturita da un atto di comprensione razionale, dalla ratio dispensata da Epicuro (15).[38] È difficile non vedere in questo passo la descrizione puntuale della cura contro le angosce descritta nella triade. Perché le tenebre dell’animo possano essere fugate è necessario perpetuare il processo descritto in questo proemio; è necessario, cioè, che il lettore ottenga attraverso il poema ciò che Lucrezio stesso ha ottenuto dal maestro: una visione razionale delle cose, che gli permetta di vedere finalmente i meccanismi più nascosti della natura. In questo sta, credo, il senso profondo dell’imitatio che Lucrezio rivendica subito prima di questa sezione, nei versi di apertura del proemio (1–9; spec. 5–6 non ita certandi cupidus quam propter amorem / quod te imitari aueo).[39]

Una conferma in tal senso giunge proprio dall’ultima sezione in cui la triade ricorre, il proemio del libro 6, dove Lucrezio offre un’altra rappresentazione per così dire ‘genetica’ della dottrina epicurea, raccontando il momento di illuminazione vissuto dallo stesso Epicuro. Anche nel caso del maestro, la presa di coscienza filosofica coincide con una visione improvvisa e lampante della vera natura delle cose (6.9–23):

nam cum uidit hic ad uictum quae flagitat usus

omnia iam ferme mortalibus esse parata 10

et, proquam possent, uitam consistere tutam,

diuitiis homines et honore et laude potentis

affluere atque bona gnatorum excellere fama,

nec minus esse domi cuiquam tamen anxia corda,

atque animi ingratis uitam uexare sine ulla 15

pausa atque infestis cogi saeuire querelis,

intellegit ibi uitium uas efficere ipsum,

omniaque illius uitio corrumpier intus,

quae conlata foris et commoda cumque uenirent;

partim quod fluxum pertusumque esse uidebat, 20

ut nulla posset ratione explerier umquam;

partim quod taetro quasi conspurcare sapore

omnia cernebat, quaecumque receperat, intus.

La maturazione del filosofo ha avuto inizio dall’osservazione della realtà circostante (9 cum uidit), dalla constatazione che tutto ciò di cui l’uomo ha realmente bisogno è a portata di mano e che la continua ricerca di ricchezze e gloria nulla può contro l’infelicità che lo assilla; Epicuro, insomma, ha visto ciò che era davanti agli occhi di tutti ma che nessuno era riuscito davvero a cogliere: che l’origine dell’infelicità dell’uomo risiede nel suo animo, e nel suo animo deve essere sconfitta.[40] L’idea è espressa dalla famosa metafora del vaso fessurato e contaminato, che lascia fuoriuscire e inquina tutto ciò che vi viene introdotto:[41] il paragone è scandito in due momenti distinti (20–23 partim ... partim), ciascuno descritto da una coppia di versi suggellata da un uerbum uidendi (20 uidebat; 23 cernebat). Come nel libro 3, la visione è inscindibilmente legata a un atto di comprensione razionale, che nel caso di Epicuro (e qui sta la grandezza del suo intelletto) segue, e non precede, la visione, come a confermare ciò che fino a quel momento è stato soltanto intuizione (9–17 cum uidit ... intellegit). Questa progressione tematica culmina, dopo l’enumerazione delle verità scoperte dal maestro (24–34), proprio nell’eptade, che ribadisce la necessità che il lettore veda attivamente, come ha fatto Epicuro, l’intima natura delle cose.[42]

Il trapasso del libro 6

La rilevanza tematica della visione evidenziata nei paragrafi precedenti offre l’occasione di riconsiderare un problema testuale sul quale editori e commentatori sono stati fino a questo momento quasi del tutto concordi. Nel libro 6 l’eptade è seguita da una sezione di trapasso, oggi mutila, in cui Lucrezio espone per sommi capi gli argomenti che si accinge a trattare: i meteora. La definizione del tema sottintende un’evidente polemica religiosa: agli occhi del poeta i meteora sono per eccellenza i fenomeni che suscitano nell’uomo il timore degli dèi. L’idea è, ancora una volta, tematizzata attraverso una rappresentazione impietosa della caecitas degli uomini, incapaci di vedere le cause profonde dei fenomeni (6.50–67):

cetera quae fieri in terris caeloque tuentur

mortales, pauidis cum pendent mentibus saepe,

et faciunt animos humilis formidine diuom

depressosque premunt ad terram propterea quod

ignorantia causarum conferre deorum

cogit ad imperium res et concedere regnum 55

quorum operum causas nulla rationeuidere

possunt ac fieri diuino numine rentur.

nam bene qui didicere deos securum agere aeuom,

si tamen interea mirantur qua ratione 60

quaeque geri possint, praesertim rebus in illis

quae supera caput aetheriis cernuntur in oris,

rursus in antiquas referuntur religiones

et dominos acris adsciscunt, omnia posse

quos miseri credunt, ignari quid queat esse,

quid nequeat, finita potestas denique cuique 65

quanam sit ratione atque alte terminus haerens;

quo magis errantes caeca ratione feruntur.

Due i principali problemi testuali posti dal passaggio: da un lato i vv. 56–57, che ricorrono identici nel passo del libro 1 già citato (1.153–154) e poco dopo nel libro 6 (90–91); dall’altro i vv. 59–67, che ripetono 5.82–90. Questi ultimi sono comunemente conservati dagli editori in entrambe le sedi.[43] Diversamente, i vv. 56–57 sono considerati generalmente spuri[44] e conservati solo da una minoranza degli editori.[45] È possibile precisare i termini del problema alla luce di quanto osservato finora sulla triade, che nel libro 6 precede di poco i versi in questione. Dal punto di vista sintattico ha creato qualche problema quorum operum, considerato “awkward after res”.[46] Ma quorum operum non fa eccessiva difficoltà se connesso a regnum e considerato, appunto, una variatio del precedente res.[47] Semmai, a creare qualche stridore è l’assenza di un soggetto esplicito per fieri, che nella sezione del libro 1 dove questi versi ricorrono è offerto da multa (152), ma che qui dev’essere dedotto, con una certa forzatura, da operum; la traduzione dei vv. 53–56 sarebbe quindi: ‘poiché l’ignoranza delle cause ultime li costringe ad attribuire gli eventi al potere degli dèi e a concedere loro il governo delle cose di cui non riescono in alcun modo a vedere le cause, e che credono avvengano per volontà divina’. Non sembra, comunque, che dal punto di vista sintattico il passo presenti problemi che giustifichino l’atetesi. Al contrario, un’analisi del contenuto e della sua strutturazione retorica depone a favore della paternità lucreziana. I vv. 56–57, infatti, chiudono efficacemente il periodo, fornendo il pendant al verbo tueor che lo apre,[48] e suggellando la raffigurazione degli uomini preda della meraviglia, che guardano sbigottiti ciò che si produce in cielo e in terra senza davvero riuscire a vedere le cause intime dei fenomeni; raffigurazione, questa, in cui culmina la linea espressiva aperta dal proemio del libro 6 e proseguita nell’eptade appena enunciata. Anche nel libro 1 il verbo tueor ricorre subito prima di questi versi, a significare lo stesso sguardo pieno della meraviglia determinata dall’ignorantia causarum (1.152): il parallelismo – che riguarda, si badi bene, un verbo al di fuori della sezione trasposta e quindi sospettata di interpolazione – mostra che i vv. 50–57 sviluppano lo stesso tema in forma più ampia e, a ben vedere, più cogente: il riferimento ai cetera quae fieri in terris caeloque traduce perfettamente gli argomenti che Lucrezio si sta accingendo ad affrontare nel libro 6 – i meteora celesti e quelli terrestri, come i terremoti – mentre si connette al contesto del libro 1 in modo più vago, come riferimento generico ai fenomeni che suscitano paura negli uomini.

L’autenticità di 56–57 trova ulteriori argomenti a favore se consideriamo i versi successivi. Al primo segmento argomentativo aperto da tueor e chiuso da nulla ratione uidere, Lucrezio ne fa seguire un altro, basato su una costruzione parallela molto simile. Questo secondo segmento è quasi interamente costituito dalla ripetizione di 5.82–90, fatta eccezione per il v. 67. Come si diceva, questa ripetizione è generalmente conservata dagli editori, ma in anni recenti Deufert ne ha contestato l’autenticità, osservando che i versi sono necessari all’argomentazione del libro 5 ma qui ridondanti rispetto a quanto appena detto dal poeta.[49] A ben guardare, tuttavia, i versi spiegano la necessità che Lucrezio torni a insistere sull’argomento e specificano le osservazioni del primo segmento. Lì le considerazioni del poeta riguardano tutti i mortali, qui l’argomentazione compie un passo ulteriore, chiarendo che proprio i meteora sono i fenomeni che devono essere trattati con maggior ampiezza, dal momento che anche chi ha respinto le credenze sugli dèi, non appena si vede sovrastato da fenomeni celesti spaventosi, si lascia sopraffare dalla paura e torna ad affidarsi alle superstizioni.[50]

La struttura retorica del passo lascia intravedere una costruzione consapevole e fa pensare che non si tratti di una semplice ripetizione. L’appiglio più sicuro è fornito proprio dal v. 67, l’unico in tutto il passo a non costituire una ripetizione e, perciò, evidentemente inserito qui per armonizzare la sezione del libro 5 al nuovo contesto. Ma a quale contesto il verso si armonizza? La sua inserzione crea una nuova costruzione a cornice, del tutto simile a quella osservata nel primo segmento: a un verbo che denota uno scrutare sbigottito in apertura (mirantur),[51] corrisponde in chiusura una nuova stoccata contro l’ignorantia causarum. È chiaro il notevole parallelismo tra il v. 56, finora espunto, e il v. 67: due versi isoprosodici e isosillabici, rispondenti nel lessico e nel contenuto, che suggellano due nuclei testuali ugualmente sovrapponibili per contenuto:

(a) (50) tuentur → || nulla ratione uidere (56)

(b) (59) mirantur → || caeca ratione feruntur (67)

La locuzione quo magis che apre il v. 67 segnala la ripresa enfatica di quanto già detto al v. 56 a proposito della cecità degli uomini, che viene ora ribadita e attribuita anche a coloro che sono stati già introdotti alla dottrina epicurea. L’insistenza di Lucrezio sul tema, l’urgenza di far sapere al lettore i pericoli insiti nell’ignorantia causarum, è ben comprensibile alla luce degli specifici argomenti del libro 6: la religione tradizionale considerava i meteora l’espressione più maestosa e terribile della potenza degli dèi e tra essi il fulmine rappresentava il simbolo stesso del regnum di Giove. È interessante a questo proposito notare che la definizione degli dèi come domini acres,[52] contenuta nella sezione tratta dal libro 5, si armonizza particolarmente bene proprio alla trattazione delle cause del fulmine, nella quale Lucrezio ricorre con insistenza alla metafora del dominus (6.89 e 223–238), transcodificando un epiteto tradizionale di Giove in una metafora che, ironicamente, smentisce l’origine divina del suo attributo più famoso.[53]

Come si diceva, i vv. 56–57 si ripetono nuovamente a distanza di 32 versi. Questa seconda sede è stata in generale giudicata la più adatta ad ospitarli,[54] anche da chi ha proposto di espungere entrambi i passaggi.[55] La costruzione messa in luce ai vv. 50–67, tuttavia, mi sembra più coerente e armonica rispetto a questa seconda collocazione, dove i versi compaiono come una sorta di parentetica, senza un reale collegamento con la sezione precedente e seguente. A così poca distanza dalla prima sede,[56] l’ipotesi più probabile è che la ripetizione si sia originata dall’intrusione di una glossa posta a commento della sezione immediatamente precedente (80–89), nella quale Lucrezio annuncia gli argomenti del libro:[57] non è strano pensare che un lettore abbia evidenziato l’excursus tematico segnalando che proprio a questi fenomeni Lucrezio si è riferito poco prima con quorum operum causas nulla ratione uidere.

L’esame di questa sezione tormentata del libro 6 aiuta a chiarire in modo decisivo il senso della formula naturae species ratioque e dimostra, al contempo, il profondo radicamento del Leitmotiv della visione penetrante nell’ossatura argomentativa del DRN. Indubbiamente, nelle intenzioni di Lucrezio il poema doveva offrire una maestosa rappresentazione dei fenomeni naturali, ma la triade sembra esprimere un’urgenza più specifica, legata all’intento didascalico dell’opera: il raggiungimento di una comprensione profonda dei fenomeni, che consenta ai discepoli di guardare con occhi nuovi il mondo e di guarire, finalmente, dalla cecità a cui sono condannati a causa delle proprie paure.

Ringraziamenti

Una prima versione di questo articolo è stata letta e corretta da Gianluigi Baldo e Stephen Oakley. Desidero esprimere la mia gratitudine a Marcus Deufert e ai revisori anonimi della rivista, che mi hanno dispensato preziosi suggerimenti di revisione.

Bibliografia

Epicuro, Opere, a cura di G. Arrighetti, Torino 21973.Search in Google Scholar

Lucrèce, De la nature, tom. II, texte établi et traduit par A. Ernout, Paris 21967.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, vol. I, ed. C. Bailey, Oxford 21950 (11947).Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, recogn. J. Bernays, Leipzig 1874.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, ed. A. Brieger, Leipzig 1894.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura, ed. K. Buechner, Wiesbaden 1966.Search in Google Scholar

T. Lucretius, De rerum natura V, ed. C. D. N. Costa, Oxford 1984.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, rec. em. suppl. H. Diels, Berlin 1923.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, rec. em. C. Lachmann, Berlin 31860.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, rec. J. Martin, Leipzig 1953.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, ed. W. A. Merrill, New York 1907.Search in Google Scholar

T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, ed. H. A. J. Munro, Cambridge 41893.Search in Google Scholar

T. Lucretius Carus, De rerum natura libri VI, ed. M. Deufert, Berlin/Boston 2019.10.1515/9783110959512Search in Google Scholar

Philodemus, On Piety, Part 1, Critical Text with Commentary, ed. by D. Obbink, Oxford 1996.Search in Google Scholar

Polistrato, Sul disprezzo irrazionale delle opinioni popolari, edizione, traduzione e commento a cura di G. Indelli, Napoli 1978.Search in Google Scholar

A. Angeli, “Compendi, eklogai, tetrapharmakos: due capitoli di dissenso nell’Epicureismo”, CErc 16, 1986, 53–66.Search in Google Scholar

C. Bailey, “The Mind of Lucretius”, AJPh 61, 1940, 278–291.10.2307/290933Search in Google Scholar

C. Bailey, Titi Lucreti Cari de rerum natura libri sex, voll. 2–3, Oxford 21950 (11947).Search in Google Scholar

P. Boyancé, Lucrèce et l’Épicurisme, Paris 1963.Search in Google Scholar

D. Butterfield, “Lucretius auctus? The Question of Interpolation in De rerum natura”, in: J. Martinez (ed.), Fakes and Forgers of Classical Literature: ergo decipiatur!, Leiden 2014, 15–42.10.1163/9789004266421_003Search in Google Scholar

K. Büchner, “Über das sechste Proömium des Lukrez”, Hermes 72, 1937, 334–345.Search in Google Scholar

G. Carlozzo, “Il vedere come prova. L’accumulo di verba videndi nel poema di Lucrezio”, Pan 18–19, 2001, 83–89.Search in Google Scholar

D. Clay, Lucretius and Epicurus, Ithaca/London 1983.Search in Google Scholar

D. Clay, “An Anatomy of Lucretian Metaphor”, in: G. Giannantoni/M. Gigante (eds.), Epicureismo greco e romano. Atti del congresso internazionale (Napoli, 19–26 maggio 1993), Napoli 1996, vol. 2, 779–793 (= idem, Paradosis and Survival: Three Chapters in the History of Epicurean Philosophy, Ann Arbor 1998, 161–173).Search in Google Scholar

D. Clay, “Lucretius’ Honeyed Muse: the History and Meaning of a Simile”, in: A. Mionet (ed.), Le jardin romain: Épicurisme et poésie à Rome. Melanges offerts à Mayotte Bollack, Villeneuve d’Ascq 2003, 183–196.Search in Google Scholar

G. Conte, “Insegnamenti per un lettore sublime”, in: Lucrezio, La natura delle cose, traduzione italiana di L. Canali, Milano 1990, 7–47 (= idem, Generi e lettori: Lucrezio, l’elegia d’amore, l’enciclopedia di Plinio, Milano 1991, 9–52).Search in Google Scholar

A. S. Cox, “Lucretius and His Message: A Study in the Prologues of the De Rerum Natura”, G&R 18, 1971, 1–16.10.1017/S0017383500017605Search in Google Scholar

P. De Lacy, “Distant views: The Imagery of Lucretius 2”, CQ 60, 1964, 49–55 (= M. R. Gale [ed.], Lucretius. Oxford Reading in Classical Studies, Oxford 2007, 146–157).Search in Google Scholar

M. Deufert, Pseudo-Lukrezisches im Lukrez: die unechten Verse in Lukrezens De rerum natura, Berlin/New York 1996.10.1515/9783110810530Search in Google Scholar

M. Deufert, Kritischer Kommentar zu Lukrezens De rerum natura, Berlin/Boston 2018.10.1515/9783110479034Search in Google Scholar

J. M. Duban, “Venus, Epicurus and Naturae Species Ratioque”, AJPh 103, 1982, 165–177.10.2307/294246Search in Google Scholar

M. Erler, “Philologia medicans: wie die Epikureer die Texte ihres Meisters lasen”, in: W. Kullmann/J. Althoff (eds.), Vermittlung und Tradierung von Wissen in der griechischen Kultur, Tübingen 1993, 281–303.Search in Google Scholar

A. Ernout/L. Robin, Lucrèce. De Rerum Natura. Commentaire exégétique et critique, Paris 1962.Search in Google Scholar

D. Feeney, “First Similes in Epic”, TAPhA 144, 2014, 189–228.10.1353/apa.2014.0012Search in Google Scholar

D. Fowler, Lucretius on Atomic Motion. A Commentary on De Rerum Natura Book Two, Lines 1332, Oxford/New York 2002.Search in Google Scholar

M. Gale, Lucretius. De rerum natura, book V, Oxford 2009.10.3828/liverpool/9780856688843.001.0001Search in Google Scholar

M. Garani, Empedocles Redivivus: Poetry and Analogy in Lucretius, New York/London 2007.10.4324/9780203929285Search in Google Scholar

G. Garbugino, “Immagine, mito e allegoria in Lucrezio”, in: T. Mantero (ed.), Analysis II. Varia poetica, Genova 1989, 9–107.Search in Google Scholar

P. Gordon, Epicurus in Lycia: The Second-Century World of Diogenes of Oenoanda, Ann Arbor 1996.10.3998/mpub.14312Search in Google Scholar

W. Görler, “Storing Up Past Pleasures: The Soul-Vessel Metaphor in Lucretius and in His Greek Models”, in: K. A. Algra/M. H. Koenen/P. H. Schrijvers (eds.), Lucretius and His Intellectual Background, Amsterdam 1997, 193–207.Search in Google Scholar

F. Giancotti, Religio, Natura, Voluptas, Bologna 1989.Search in Google Scholar

A. Grilli, “Immaginazione e visione in Lucrezio”, in: Lucrezio. L’atomo e la parola. Colloquio lucreziano (Bologna 26 gennaio 1989), Bologna 1990.Search in Google Scholar

K. Lachmann, In T. Lucreti Cari de rerum natura libros commentarius, Berlin 1850.10.1515/9783112389102Search in Google Scholar

D. Lehoux, “Seeing and Unseeing, Seen and Unseen”, in: D. Lehoux/A. D. Morrison/A. Sharrock (eds.), Lucretius: Poetry, Philosophy, Science, Oxford 2013, 131–151.10.1093/acprof:oso/9780199605408.003.0006Search in Google Scholar

W. E. Leonard/S. B. Smith, T. Lucreti Cari De rerum natura libri sex, Madison 1942.Search in Google Scholar

A. A. Long/D. N. Sedley, The Hellenistic philosophers, vol. 1–2, Cambridge 1987.10.1017/CBO9780511808050Search in Google Scholar

R. Maltby, A Lexicon of Ancient Latin Etymologies, Leeds 1991.Search in Google Scholar

D. Marković, The Rhetoric of Explanation in Lucretius’ De rerum natura, Leiden/Boston 2008.10.1163/ej.9789004167964.i-178Search in Google Scholar

G. Milanese, “Visione, conoscenza, liberazione. Nota a Lucrezio, I 151–154”, Aevum 60, 1986, 41–46.Search in Google Scholar

G. Milanese, Lucida carmina. Comunicazione e scrittura da Epicuro a Lucrezio, Milano 1989.Search in Google Scholar

R. Minadeo, The Lyre of Science. Form and Meaning in Lucretius’ De Rerum Natura, Detroit 1969.Search in Google Scholar

J. D. Minyard, Mode and Value in the De Rerum Natura: A Study in Lucretius’ Metrical Language, Wiesbaden 1978.Search in Google Scholar

H. A. J. Munro, Titi Lucreti Cari De Rerum Natura libri sex, vol. II, Cambridge 41900.Search in Google Scholar

A. Németh, Epicurus on the Self, London/New York 2017.10.4324/9781315207001Search in Google Scholar

R. Ojeman, “Meanings of Ratio in the De Rerum Natura”, CB 39, 1963, 43–55 and 57–59.Search in Google Scholar

T. Reinhardt, “To See and to Be Seen: On Vision and Perception in Lucretius and Cicero”, in: G. D. Williams/K. Volk (eds.), Roman Reflections: Studies in Latin Philosophy, Oxford/New York 2016, 63–90.10.1093/acprof:oso/9780199999767.003.0004Search in Google Scholar

A. Schiesaro, “«Nonne vides» in Lucrezio”, MD 13, 1984, 143–157.10.2307/40235829Search in Google Scholar

A. Schiesaro, Simulacro et imago. Gli argomenti analogici nel De rerum natura, Pisa 1990.Search in Google Scholar

P. H. Schrijvers, Horror ac divina voluptas. Études sur la poétique et la poésie de Lucrèce, Amsterdam 1970.Search in Google Scholar

P. H. Schrijvers, “Seeing the Invisible: A Study of Lucretius’ Use of Analogy in De rerum natura”, in: M. Gale (ed.), Lucretius. Oxford Readings in Classical Studies, Oxford 2007, 255–288 (= “Le regard sur l’invisible. Étude sur l’emploi de l’analogie dans l’œuvre de Lucrèce”, in: O. Gigon [ed.], Lucrèce, Vandoeuvres/Genève 1978, 77–121).Search in Google Scholar

D. Sedley, Lucretius and the Transformation of Greek Wisdom, Cambridge 1998.10.1017/CBO9780511482380Search in Google Scholar

W. Y. Sellar, The Roman Poets of the Republic, Oxford 31889.Search in Google Scholar

A. Setaioli, “L’analogie et la similitude comme instruments de démonstration chez Lucrèce”, Pallas 69, 2005, 117–141.Search in Google Scholar

O. Tescari, Lucretiana, Torino/Milano/Genova 1935.Search in Google Scholar

V. Tsouna, “Epicurean Preconceptions”, Phronesis 61, 2016, 160–221.10.1163/15685284-12341304Search in Google Scholar

H. Usener, Glossarium Epicureum edendum curaverunt M. Gigante et W. Schmid, Roma 1977.Search in Google Scholar

F. Verde, “Ancora sullo statuto veritativo della sensazione in Epicuro”, Lexicon Philosophicum (Special issue: Hellenistic Theories of Knowledge), 2018, 79–104.Search in Google Scholar

K. Volk, The Poetics of Latin Didactic: Lucretius, Vergil, Ovid, Manilius, Oxford 2002.10.1093/acprof:oso/9780199245505.001.0001Search in Google Scholar

D. West, The Imagery and Poetry of Lucretius, Edinburgh 1969.Search in Google Scholar

Published Online: 2020-10-06
Published in Print: 2020-11-04

© 2020 Luca Beltramini, published by Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston

This work is licensed under the Creative Commons Attribution 4.0 International License.

Downloaded on 25.4.2024 from https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/phil-2020-0109/html
Scroll to top button