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BY 4.0 license Open Access Published by De Gruyter September 19, 2020

Raffaello e Omero (da Urbino alla Stanza della Segnatura)

  • Raffaella Viccei EMAIL logo
From the journal Antike und Abendland

La ricerca del volto perduto di Omero è stata perseguita dalla più remota antichità all’età contemporanea e non solo nel mondo occidentale. Uno dei più recenti ritratti di Omero è l’opera Homer, realizzata nel 2014 da un artista sud coreano, Joongwon Jeong:[1] una gigantografia iperrealistica, in cui ogni tratto del volto del Poeta, ruga, capello, ogni piega della minima porzione dell’abito rappresentato è resa con esasperato e minuzioso realismo. Dell’atto creativo di Jeong interessano qui soprattutto la scelta stilistica ed estetica e la ricerca del modello. Attraverso lo stile e l’estetica iperrealistici il volto di Omero assume le sembianze di un volto fotografato, le quali provocano, in chi guarda l’opera, l’illusione che quel volto, dunque Omero, sia realmente esistito, e in un tempo pressoché contemporaneo a quello della fruizione dell’opera, e inducono persino a ritenere che il Poeta possa essere in vita nel momento in cui ne viene osservato il ritratto. Quel volto, per essere più che realistico, è paradossalmente anche ideale: negli occhi, ad esempio, la mimesi marcatamente reale della cecità[2] giunge a rappresentare l’idea stessa della cecità.

L’assenza della vista, che in un poeta è simbolo di ispirato vedere poetico e straordinaria capacità mnemonica, appartiene più e prima di ogni vate a Omero, al punto che quasi nessuno dei suoi ritratti, fin dal più antico, l’ha taciuta.[3] La cecità è dunque il fil rouge, l’elemento archetipico e ineludibile dei ritratti omerici con cui si sono misurati gli artisti. L’opera contemporanea Homer si ispira principalmente a una copia del noto Omero Farnese,[4] contaminata con modelli pittorici[5] e, soprattutto, con l’immagine fotografica di un uomo il cui volto reale è stato considerato da Jeong idealmente evocativo dei volti ricostruiti di Omero.[6]

Ferme restando le differenze stilistiche, estetiche, storiche, culturali, Jeong ha compiuto un’operazione già attuata da artisti ellenistici, che hanno cercato nel marmo il volto di Omero, e da quelli che lo hanno realizzato in età imperiale, copiando opere di II e I sec. a.C.: accentuare realisticamente i tratti di un volto simulato, un volto non reale ma che si può solo immaginare.[7] Dai più antichi ritratti di Omero ai più recenti, tutti sono l’esito di una ricostruzione che molto deve all’immaginario, formatosi nel tempo attraverso la stratificazione di suggestioni letterarie (dall’Iliade e dall’Odissea, dalle Vite di Omero, dalla tradizione indiretta sul Poeta, e da altro) e iconografiche.

Anche se la ricerca della maggior parte degli artisti si è concentrata sul volto di Omero, non pochi di essi hanno voluto dare al Poeta anche un corpo: tra questi, Raffaello[8] che, nel suo Omero del Parnaso vaticano, ha creato una immagine-summa del Poeta e una figura volta a un dialogo multiplo. Lo scopo di questo articolo è indagare e interrogare l’Omero dell’artista urbinate sia in sé stesso sia nelle relazioni iconografiche e di senso che intercorrono tra l’immagine del Poeta e altre figure del Parnaso. La Stanza della Segnatura, che accoglie l’affresco, era aperta sul Cortile del Belvedere che, proprio a ridosso dell’inizio dei lavori di Raffaello, ospitava una delle più importanti scoperte archeologiche del Rinascimento: il gruppo scultoreo del Laocoonte. L’asse iconografico e iconologico tra quest’opera, Omero e il giovane che, seduto alla sua destra, accoglie le parole del Poeta costituisce un punto chiave della nostra ricerca, come pure è nostro oggetto di interesse la ricostruzione degli eterogenei stimoli culturali e letterari che intervennero nella ricezione di Omero nella Roma di Papa Giulio II.[9]

1. Stratigrafia di una immagine. Homerus Smyrnaeus nello Studiolo del Palazzo Ducale di Urbino e il Tempietto delle Muse.

Nell’immaginario artistico di Raffaello, il volto di Omero si è manifestato precocemente. Anche se è impossibile determinare con precisione quando ciò sia avvenuto, è verosimile pensare a date comprese tra la fine dell’infanzia e l’adolescenza, mentre si possono indicare con certezza i luoghi di questi incontri: lo Studiolo del Palazzo Ducale di Urbino e il Tempietto delle Muse, cui lavorò il padre di Raffaello, Giovanni Santi.

Non può dunque iniziare che da Urbino, una delle città simbolo del Rinascimento italiano, del mecenatismo artistico e letterario, crocevia di fondamentali elaborazioni culturali, urbanistiche, architettoniche, pittoriche e luogo cruciale per la prima formazione di Raffaello,[10] la complessa ricerca delle radici del suo Omero del Parnaso vaticano, dove l’Ur-poeta viene inserito in una rete di relazioni, all’interno delle quali risalta il collegamento con Apollo Musagete.

Nello Studiolo del Duca di Montefeltro (1472–1476),[11] «sintesi didattico-enciclopedica del cuore della cultura rinascimentale»,[12] luogo per la meditazione intellettuale e spazio autocelebrativo all’interno di un Palazzo che era un manifesto del potere e della cultura di corte,[13] i ritratti di ventotto Dotti (o Uomini Illustri) raccontano, dalla più remota antichità al Quattrocento, il quid proprium. Fra tutti, il primo in ordine di tempo è Omero, dipinto nel registro superiore della parete orientale, tra Virgilio e Seneca: secondo la inveterata tradizione, il Poeta è cieco; sul suo capo è una corona d’alloro. HOMERO SMYRNAEO, cujus poësin ob divinam disciplinarum varietatem omnis aetas admirata est, assecutus nemo post, gratitudo pos[uit]:[14] al di sotto del ritratto, il Duca e quanti erano ammessi nel suo Studiolo leggevano queste parole encomiastiche. La mano sinistra di Omero è poggiata su un libro che, nel caso suo e degli altri Dotti, è simbolo del lavoro intellettuale e che rinvia, al contempo e in senso lato, alla bibliofilia di Federico, «amatore del libro bello e ricco, da sfogliare più che da leggere, oggetto prezioso da collezione più che strumento di studio».[15]

Nello Studiolo, Omero è presente anche attraverso riflessi della sua poesia epica che si colgono implicitamente nel Dotto Bessarione, identificabile grazie all’epigrafe onomastica.[16] Il cardinale e umanista, che aveva un legame stretto e preferenziale con Federico, al quale diede in custodia la sua pregevolissima biblioteca, e con i suoi figli, donò proprio a uno di essi, Antonio, un codice greco con l’Iliade (Urb. Gr. 137).[17] E infine, ancor più sottilmente, nel ritratto di Pio II, pontefice ma anche mecenate, umanista, scrittore, conoscitore del greco (era stato allievo di Francesco Filelfo) che, in un incontro con Federico a Tivoli (1461), esaltò Omero e l’Iliade soprattutto per la descrizione delle armi, l’importanza della guerra di Troia e per la fama di eroi quali Achille, Agamennone, Ettore.[18]

A Raffaello non era precluso l’accesso a Palazzo Ducale, certo fino a quando fu in vita suo padre (1494),[19] uno dei pittori di corte più apprezzati e poeta, famoso soprattutto per il poema epico celebrativo La vita e le gesta di Federico di Montefeltro duca d’Urbino.[20] Raffaello conosceva lo Studiolo, come dimostrano anche copie di alcuni Dotti nel Libretto veneziano e – ciò massimamente ci interessa – la copia puntuale di Omero, accompagnata da uno schizzo del solo volto.[21] Non di meno doveva essere noto a Raffaello il Tempietto delle Muse (1476–1480) che, insieme alla coeva Cappella del Perdono, era stato costruito in relazione al soprastante Studiolo.[22] «Nell’ambito di un programma organico, che legava idealmente e strutturalmente gli ambienti riservati al Duca nell’area occidentale del Palazzo […], la cappella e il Tempietto costituiscono, idealmente, il punto d’arrivo del ‹percorso reale e simbolico› che dallo studiolo, attraverso la scala elicoidale, conduce nella zona sacra del Palazzo», rileva Nicoletta Guidobaldi.[23] Almeno a sei delle nove Muse (1480–1490 circa) del ciclo pittorico del Tempietto aveva lavorato Giovanni Santi, che fu probabilmente tra gli ideatori del progetto iconografico, e che alle Muse aveva dedicato, negli stessi anni, versi nel citato poema La vita e le gesta di Federico.[24]

Questo luogo era uno spazio cultuale dedicato alla poesia e alla musica, incarnate con varietà di accenti e significati dalle Muse, tra rocce, fonti e ruscelli del Parnaso, e da Apollo,[25] accompagnate molto probabilmente dalla Poesia stessa: pare che così debba intendersi la figura femminile seduta, dipinta in una delle tavole disperse del Tempietto. La convincente ipotesi si basa sul testo di riferimento del ciclo pittorico, il De Gentilium Deorum Imaginibus di Lodovico Lazzarelli (1470), e sulle correlate miniature, esemplate sui cosiddetti Tarocchi del Mantegna,[26] tra le quali la Poesia è «ritratta come una fanciulla coronata d’alloro, seduta in un locusamoenus, che tiene un flauto diritto con la sinistra mentre con la destra versa da una brocca l’acqua della fonte Castalia che nutre l’ispirazione dei poeti».[27] La sacralità di questo luogo era dichiarata nella frase che scorreva lungo le pareti del portico-vestibolo comune all’altro ieratico spazio, la Cappella del Perdono,[28] e attraverso il vincolo architettonico e ideale fra i due inscindibili sacella, consacrati uno a Dio, uno alle Muse, veniva affermata e promossa «la concezione ficiniana nella quale filosofia platonica e religione cristiana non sono opposte, ma perfettamente integrate».[29]

L’Omero Smirneo dello Studiolo e le Muse del Tempietto urbinate non ebbero una diretta e visibile influenza nella elaborazione di Omero e del corteggio apollineo delle Muse nel Parnaso vaticano ma, mentre Raffaello lavorava a questo ambizioso affresco, dagli strati più remoti della memoria, l’uno e l’altra dovettero senza dubbio riaffiorare, non tanto come modelli figurativi quanto come riferimenti culturali e concettuali. Omero il primo poeta, il primo laureatus, il cieco veggente, la trasmissione dell’Iliade attraverso il libro (dipinto tra le sue mani e circolante nella corte del Duca di Montefeltro per mano di Bessarione), da un lato; dall’altro: Apollo e le Muse, immerse nello sfondo naturalistico del Parnaso condiviso con il dio, il platonismo ficiniano, che aleggiava nel Tempietto urbinate, l’Apollo musico con una «lira da braccio», «strumento quasi divino» che, al contempo, rendeva il dio simile a «un cantore improvvisatore»,[30] la Poesia laureata e seduta, latrice di ispirazione poetica.

La presenza dell’universo artistico e intellettuale urbinate in Raffaello, mentre dipingeva il Parnaso e gli altri affreschi della Stanza della Segnatura, è provata dal ritratto del padre nella Scuola di Atene, accostato al proprio autoritratto. L’importanza del rapporto discepolo-maestro, affermata in molte delle relazioni in essere nella Scuola, trova espressione, intima e profonda, nella vicinanza dei volti dei due artisti urbinati.[31] Con la parziale sovrapposizione dei visi e lo sguardo rivolto al padre, Raffaello dichiara la prima fonte del suo sapere pittorico, del suo estro poetico e soprattutto della sua dimensione intellettuale. Forse omaggia anche le capacità ritrattistiche del padre;[32] certo valorizza una eredità, che avvicina idealmente non solo due artisti multiformi ma anche le due realtà artistiche e culturali dove padre e figlio avevano dimostrato e affermato a pieno la loro versatilità artistica e culturale: l’Urbino ducale e la Roma di Papa Giulio II.

Che questo legame fosse conosciuto, riconosciuto e, si potrebbe dire, approvato in Vaticano è chiaro dalle stesse parole del Pontefice che, nel Motu proprio del 4 ottobre 1511, con cui nomina Raffaello Brevium Scriptor, scrive così: Dilecto filio Raphaeli, Johannis de Urbino scolari, Urbinatensi pictori in palatio nostro.[33]

2. Numine afflatur. La Poesia e il Parnaso nella Stanza della Segnatura.

Originario di un borgo del Ducato di Urbino e parente di Raffaello, Donato Bramante fu figura chiave per l’accesso del giovane artista nella Roma di Giulio II (1503–1513), un Papa bifronte: da un lato, guida di un Papato imperiale pensato come erede ideale della Roma di Giulio Cesare, dall’altro, promotore di scoperte d’antichità, formidabile collezionista, perspicace e sensibile mecenate d’arte.

La particolare intesa tra Giulio II e Bramante, forte della caleidoscopica genialità dell’artista – architetto, pittore, cantore, amante della letteratura –, fu propizia all’arrivo di Raffaello a Roma nel 1508,[34] con l’incarico di dipingere la Disputa del Sacramento (Trionfo dell’Eucarestia) nella Stanza della Segnatura (1508–1511), spazio di meditazione culturale e autocelebrazione.[35] Pensata, con le Stanze dell’Incendio di Borgo, di Eliodoro e della Sala di Costantino, come ampliamento di rappresentanza dell’appartamento privato del Papa, era adibita a studiolo pontificio o biblioteca.[36]

La Disputa del Sacramento (parete Ovest), le Virtù Cardinali e Teologali e la Legge (Sud), la Scuola di Atene (Est), il Parnaso (Nord) manifestano, mediante la trattazione, il dialogo, la meditazione e la scrittura, le attività della Teologia, della Giustizia, della Filosofia e della Poesia che, sub specie di figure allegoriche, dominano la Stanza dai tondi della volta quadripartita.[37]

Gli affreschi, pur non concepiti come narrazione continua, vanno compresi come un ciclo. Esistono, infatti, relazioni tra le quattro pareti e rapporti interni alle stesse, relazioni tra gli affreschi e le immagini sulle volte in linea con quella unità sempre ricercata da Raffaello, non solo nella Stanza ma in generale nei suoi lavori.

Chi accedeva alla Stanza della Segnatura andava con lo sguardo e con la mente dalla Teologia metafisica alla Poesia alla Filosofia alla Giustizia. Raffaello, Bramante e Dante, nelle vesti del Virgilio dantesco, guidano l’homo viator del Rinascimento alla contemplazione dei primi tre affreschi, dove appaiono più volte, e lo affidano, nell’affresco-epilogo della Giustizia, al solo Papa, lì dominante.

In particolare, Dante[38] è trait d’union fra la Disputa (margine destro) e il Parnaso (margine sinistro); Raffaello fra la Scuola di Atene (margine destro) e il Parnaso (margine sinistro).

Oltre agli ‹uomini illustri› c’è un dio, pagano, a tessere una rete di relazioni: Apollo. Ricorrente anche nella volta, fra il tondo della Teologia e della Poesia, nel riquadro maggiore con la rappresentazione della mitica contesa musicale con Marsia,[39] Apollo è figura-ponte tra il Parnaso e la Scuola di Atene, qui reso come immagine scultorea che inquadra, a sinistra, il simposio dei filosofi, nel Parnaso, quale asse della composizione. La stessa vocazione musicale del dio, presente già nel detto riquadro, unisce ulteriormente Scuola e Parnaso: nella Scuola, essa è data dalla scelta del tipo scultoreo antichizzante dell’Apollo citaredo, nel Parnaso dall’Apollo suonatore di lira da braccio.

La musica connota, in parte, anche l’allegoria della Poesia, in luminosa veste bianca e manto blu intenso. Da una vela della volta, in una posizione chiave al pari delle altre allegorie e rispetto al Parnaso, soprattutto ad Apollo, appare tenendo in mano una cetra,[40] cordofono che si ritrova nel sottostante affresco, retto da Tersicore in una variante organologica. Un libro, chiuso nell’altra mano, avvicina la Poesia a Clio.

Tra le quattro allegorie, la Poesia è la sola ad avere natura alata, segno di affinità con gli angeli, mentre condivide con i poeti la corona d’alloro. Ai lati, due tabulae ansate con le parole numine afflatur fissano l’imperituro soffio divino da essa ispirato e sintetizzano la vocazione divina del poeta. Si è pensato che questa icastica espressione fosse una rielaborazione di analoghe locuzioni impiegate da Cicerone,[41] Virgilio[42] e Petrarca, suggerita a Raffaello da Tommaso Inghirami, suo amico, umanista tra i principali consiglieri e ispiratori – se non il principale – del programma iconografico delle Stanze e, dal 1510, Prefetto della Biblioteca Vaticana.[43] Nel discorso di ringraziamento, pronunciato in Campidoglio l’8 aprile 1341, per aver ricevuto la corona d’alloro, il Petrarca laureatus espresse l’origine divina dell’ispirazione poetica con le parole quasi divino quodam spiritu afflari.[44] Pensiamo che questo discorso, noto come Collatio laureationis,[45] sia fonte preziosa per ricostruire la genesi e la concezione del Parnaso vaticano. Non sembra, infatti, che Raffaello abbia tratto diretta ispirazione da un preciso modello iconografico,[46] anche se più che una suggestione dovette giungere all’artista dal Parnaso del Tempietto urbinate – il suo primo Parnaso –, sviluppato per quadri distinti, appena uniti dalla comune ambientazione naturale del mitico monte e dalla condivisa presenza, in ogni tavola, di versi tratti da un canto sulle Muse;[47] e spunti dovette avere anche dal De Gentilium Deorum Imaginibus.[48]

Questo verosimile background del Parnaso dovette ricevere linfa proprio dalla Collatio, testo noto nella Roma giuliana[49] e implicitamente integrato nel Parnaso della Stanza mentre più esplicitamente le incoronazioni poetiche vennero integrate nel cortile vaticano del Belvedere, il cui «spazio del nuovo giardino delle statue […] usurpava l’incoronazione poetica, prerogativa del colle capitolino».[50] Sono vari i temi, i segni, i personaggi che attraversano la Collatio laureationis, sorta di inno alla Poesia,[51] e che si ritrovano nell’affresco della Stanza e sono varie pure le affinità di senso. Su tutte, vanno rilevate: la celebrazione della poesia nell’accezione sopra ricordata; le valenze metaforiche dell’alloro per la poesia, la funzione di tutela dei libri dai danni del tempo esercitata da questa pianta – funzione quanto mai consona a una biblioteca, quale era probabilmente la Stanza –; la figura di Omero, divinarum omnium inventionum fons et origo, il quale, sub poetici nube figmenti, verum sapientibus intelligi dedit e poetarumprinceps.[52]

Nella parete del Parnaso (cronologia oscillante tra 1509–1510 e 1510–1511 – ipotesi, quest’ultima, più fondata),[53] sovrastata dall’allegoria della Poesia, il fuoco della composizione è costituito dall’archetipo del laureatus, il divino Apollo. Il serto d’alloro è anche sulla testa dei poeti, a cominciare da quella di Omero: grazie alla corona, diventano tutti partecipi di quella divinazione di cui Apollo laureato è «dio».[54] Nel Parnaso, le ‹poetiche› piante di alloro sono disposte in modo tale da evocare un bosco e, di nuovo, pare esserci un riferimento alla Collatio, esattamente all’ampia parte che Petrarca dedica all’alloro della sua corona,[55] il cui incipit è la citazione del laurinemus dei Campi Elisi dall’Eneide.[56] La presenza di Virgilio e del suo poema ricorre più volte: nella menzionata epigrafe numine afflatur, nel ritratto ideale del poeta – alle spalle di Omero –, nel monocromo con Augusto che salva l’Eneide dalle fiamme, dipinto al di sotto del Parnaso, e all’ingresso del Cortile del Belvedere, nelle parole procul este profani.[57]

Il dio Apollo, che siede al centro dell’affresco come Cristo nella Disputa del Sacramento, ha il volto rivolto verso l’alto in atteggiamento estatico e accompagna il canto poetico con una viola rinascimentale a nove corde, un tipo di strumento ritenuto adatto «al coro delle Muse»,[58] secondo quanto scriveva, nel XVI secolo, il compositore, liutaio, teorico della musica Vincenzo Galilei. La nuova attribuzione della «lira o viola da braccio» ad Apollo – come mostra, fra gli altri, il Musagete del Tempietto urbinate[59] – rifletteva però soprattutto la circolazione di questo strumento «nel primo Cinquecento»: essa «era legata alla moda dei poeti di recitare i propri versi accompagnandosi con la musica», ritenuta perfetta per «la recitazione e il canto di versi poetici», ovvero per «il ‹recitar cantando›».[60]

Il dio è circondato dalle nove Muse: quattro a sinistra, cinque a destra.[61] Il primo consesso (Calliope, Erato, Polimnia, Euterpe) è contiguo ai sommi poeti, Omero, Virgilio, Dante. Fra tutti, Omero è il più vicino a Calliope,[62] la Musa dell’epica che non può che avere la massima prossimità con il primo poeta epico e l’antonomastico. Omero alza lo sguardo al cielo, come Apollo, e contemporaneamente rivolge la parola poetica a un giovane alla sua destra, seduto, con un calamo in mano e fogli sulle ginocchia, in atto di scrivere quello che il poeta declama. Alle spalle di Omero, dietro a Virgilio, appare un personaggio che, per i tratti somatici, viene identificato con Raffaello.[63] Questa figura di giovane cerca lo sguardo dell’osservatore del Parnaso, allo stesso modo del Raffaello del sicuro autoritratto nella Scuola di Atene. Si pone discretamente tra Virgilio, il vate della nascita di Roma, di quella città alle cui antichità Raffaello era legato, in modo viscerale e per più ragioni,[64] e Calliope, Erato, Polimnia. I volti di queste Muse sembrano rispecchiare il viso della donna amata dal pittore, ritratta ne La donna velata e a sua volta musa di sonetti d’amore, alla maniera del Petrarca, che Raffaello appuntò su bozzetti della Disputa e del Parnaso, segno di una propensione poetica – nota anche da altre testimonianze – e che verosimilmente indusse l’artista a dipingersi laureatus fra laureati.[65]

3. Stratigrafia di una immagine: il gruppo scultoreo del Laocoonte e l’Omero di Raffaello con il giovane rapsodo.

La finestra attorno alla quale fu dipinto il Parnaso, dominato da Apollo, si apriva sul colle Vaticano, in antico legato al culto del dio, sul Cortile del Belvedere e sull’odeon. Anche il cortile bramantesco era segnato da Apollo, almeno dal 1508, quando accolse la famosa statua omonima – detta per questo, e tuttora, Apollo del Belvedere –, una delle più sensazionali scoperte d’antichità del Rinascimento e tra le punte di diamante della collezione del Cardinale Giuliano della Rovere, come noto, divenuto Papa Giulio II.[66] Nel Cortile furono disposte anche altre sculture e pezzi d’eccellenza, messi in luce a Roma tra il XV e l’inizio del XVI secolo, come il celeberrimo gruppo statuario del Laocoonte:[67] grazie ad esse il Cortile assunse l’aspetto e la funzione di uno spazio-museo e di uno spazio-teatro.[68] In esso si svolgevano anche rappresentazioni teatrali, declamazioni e incoronazioni poetiche, tra cui la leggendaria e spettacolare del 1512, che ebbe tra i protagonisti l’allora prefetto della Biblioteca Vaticana (1510) e uno dei principali ideologi delle Stanze, il citato Tommaso «Fedra» Inghirami, che consegnò al Pontefice le corone d’alloro per i poeti.[69] Questa celebrazione, che comprese anche recitazioni di versi da parte di fanciulli, vestiti da Muse, di allievi dell’accademia romana, come Vincenzo Pimpinella, in abito di Orfeo/Apollo, e di figure come Raffaele Brandolini, noto anche per le doti da improvvisatore e la cecità, per le quali era considerato alter Homerus,[70] fu il punto di convergenza del «ritorno del Parnaso», dell’«insediamento dei rituali accademici», della «trasfigurazione archeologica degli spazi vaticani».[71]

Il Parnaso della Stanza della Segnatura non era isolato, né in senso topografico nè semantico: nell’affresco – metaforicamente – e tra l’affresco e il Cortile del Belvedere prendeva vita il nuovo Parnassus di Giulio II e della sua corte rinascimentale nel segno di una ideale continuità fra la cultura antica e quella dell’età dell’alter Iulius, infaticabile tessitore di fili tra le «proprie imprese culturali, politiche e militari […] e quelle compiute da Giulio Cesare», ricondotte e giustificate «entro un’ottica cristiana».[72]

Il Parnassus giuliano era dichiaratamente memore della centralità di Apollo e della prima voce poetica, quella di Omero, il primo poeta ispirato dal dio e il poetarum princeps: così appare dalla postura del volto, dalla collocazione nello spazio e dal rapporto con gli altri poeti.

A differenza dei poeti contemporanei a Raffaello raffigurati nel Parnaso, come Jacopo Sannazaro,[73] il volto di Omero non poteva che essere affidato a un ritratto di ricostruzione,[74] a quella tipologia di ritratto che induce l’artista, preso dal desiderio di entrare in relazione con gli «Uomini illustri» del passato, a immaginare visi di cui sono ignote le reali sembianze. Il ritratto di ricostruzione è una immagine fittizia ma restituisce – o almeno questo è il suo intento – l’idea maturata, nel tempo, spesso attraverso la lettura dei testi o la tradizione orale, attorno a uno spirito magno.

La prassi del ritratto di ricostruzione riguarda Omero da sempre e di essa parla in modo esplicito Plinio, la cui Naturalis Historia era ben nota nei primi anni del Cinquecento. L’autore latino, indicando anche uno tra i principali luoghi di esposizione di questo genere di ritratto, scrive:

non va dimenticata neppure la recente trovata di dedicare nelle biblioteche ritratti […] a coloro le cui anime immortali parlano in quei medesimi luoghi; anzi, si raffigurano anche ritratti immaginari, e i desideri creano volti non tramandati, come è accaduto nel caso di Omero (etiam quae sunt finguntur, pariuntque desideria non traditos vultus, sicut in Homero evenit).[75]

Sempre nella Naturalis Historia, Plinio menziona un’importante opera di Varrone sull’arte del ritratto, Imagines o Hebdomades (39 a.C.), dove viri illustres, disegnati, dipinti, accompagnati da un elogio, erano disposti in gruppi.[76] Questa dislocazione fu adottata da Raffaello nel Parnaso quando – ripetiamo – l’opera di Plinio era conosciuta e diffusa.[77]

Anche nel trattato rinascimentale De Sculptura (1504) di Pomponio Gaurico è espresso un concetto analogo a quello pliniano e proprio in relazione a Omero: «Gli scultori la [scil.: la fisiognomica] terranno in grande considerazione, in quanto grazie ad essa potranno rappresentare con grande facilità quello stesso Omero, che tanto desideriamo vedere, e gli stessi sapienti della Grecia».[78] Con riferimento a questo passo, Lina Bolzoni[79] rileva come sia significativo che «Omero venga citato per primo, come primo oggetto» del «desiderio che consiste nel poter disporre anche del ritratto, dell’immagine fisica dei grandi del passato». E aggiunge: «La fisiognomica si presenta […], all’inizio del Cinquecento, come una specie di scorciatoia per realizzare quel desiderio di cui parlava Plinio, come la tecnica cui si chiedono gli strumenti per tradurre in un ritratto visibile quel ritratto invisibile che i testi trasmettono» e che trova negli studioli i luoghi ideali. «Se leggere vuol dire incontrarsi con l’autore, vuol dire evocarne i lineamenti e la presenza con una intensità quasi fisica, allora la presenza del suo ritratto aiuterà il compimento del rito, e parole e immagini si appoggeranno le une alle altre».

Raffaello, per il suo ritratto omerico, non potè considerare i ritratti di ricostruzione greci e romani,[80] dal momento che quasi sicuramente non li conosceva. Neppure i precedenti più prossimi, tuttavia, si intravedono per allusione iconografica nell’Omero della Stanza: nulla vi è dell’immagine d’Omero dello Studiolo urbinate. Senza dubbio, però, è anche attraverso quella prima memoria artistica e culturale sul poeta greco che Raffaello elabora il ‹suo› Omero: l’idea della cecità, della natura di divino poeta, di veggente, dell’età avanzata, del libro (ossia, del testo scritto), approda nell’Omero di Raffaello attraverso una dinamica stratificazione che, per l’artista urbinate, aveva il suo atto di nascita nell’Omero dello Studiolo della sua città natale. A questo primo strato se ne aggiunsero altri: modelli iconografici, riferimenti e stimoli letterari, di cultura orale, riletti dall’«onnivora curiosità intellettuale»[81] di Raffaello, selezionati e assimilati con intelligente sensibilità, ripensati e rielaborati attraverso il filtro della propria concezione del ritratto[82] e tenendo conto di un preciso contesto artistico, culturale e ideologico, il Parnassus pontificio, in cui Omero andava inserito come archetipo dei poeti.

Il volto del proto-poeta è rovesciato all’indietro; è colto in una ispirazione concentrata e tesa, contrapposta a quella estatica di Apollo; è fermato in un silente dialogo con il numen dal quale nasce la parola poetica, da accogliere e trasmettere. Raffaello fa proprio il tradizionale tratto omerico della cecità in una concezione e rappresentazione di Omero del tutto originale. Essa attinge moduli espressivi della statuaria patetica ellenistica, che l’Urbinate potè cogliere da una eclatante scoperta della Roma pontificia (1506), esposta con enfasi nel Cortile del Belvedere: il Laocoonte.[83] Raffaello ebbe modo di osservare il gruppo statuario con molta accuratezza perché, nel 1507–1508, fu incaricato da Bramante di valutare la migliore copia, completa delle parti mancanti, eseguita da alcuni dei più talentuosi scultori dell’epoca.[84] Poco prima di iniziare il Parnaso, Raffaello, non solo vide il Laocoonte ma, per onorare l’incarico ricevuto, lo studiò accuratamente, da vicino.[85] Del volto del sacerdote troiano, riprese per Omero la concentrazione, ma opportunamente spogliata di quel sentimento di strazio e dolore che attraversava il pensiero di Laocoonte; risemantizzò la bocca aperta, non più per un urlo trattenuto, come nel troiano, ma per l’emissione di voce poetica. Raffaello mitigò molto l’accentuata inclinazione del viso di Laocoonte verso sinistra, troppo patetica per il ritratto del vate.[86] Mantenne, invece, la barba dai fitti ricci, persino nel lieve biforcarsi sotto il mento, i baffi e la capigliatura, in Omero meno folta per via dell’età avanzata e soprattutto per dare risalto al serto di alloro.[87]

Anche per il corpo, la ricostruzione di Raffaello si differenzia molto dalle possibili ricostruzioni precedenti del corpo del poeta, ipotizzato spesso in piedi, ma vacillante a causa della cecità, oppure seduto, come nel citato rilievo ellenistico di Archelaos di Priene e nello Studiolo di Urbino. L’Omero della Stanza della Segnatura è stante, maestoso, saldo. La postura del piede destro, avanzato verso il giovane, e soprattutto il braccio proteso con fermezza verso di lui, che lo fissa e ascolta con attenzione mentre si accinge a scrivere, introduce una pregnante apertura nello schema del poeta. Il corpo è avvolto in un abito anticheggiante, composto da chiton e himation, giallo e blu. Attraverso il giallo Raffaello avvicina Omero alla Musa dell’astrologia Urania che, di spalle, chiude il gruppo delle Muse;[88] attraverso il blu, seppure di diversa nuance, accosta Omero alla Poesia, facendo di lui il solo, tra i poeti del Parnaso, a godere di questa consonanza cromatica e riconoscendogli unicità poetica anche per mezzo di questa soluzione iconografica.

Il corpo dell’Omero di Raffaello è ‹parlante› al pari del volto. Lo schema è un perfetto equilibrio di stabilità, ottenuta nella ferma impostazione della imponente parte sinistra del corpo e nella mano chiusa in un pugno, e di aperture, date dalla postura del capo proteso verso i cieli del Parnaso e dal braccio destro, aperto e disteso, come la mano, in direzione del giovane che sta per scrivere. Con questo schema Raffaello crea un Omero fermato nella consapevolezza della propria maestosità e maestà poetica, sovrastante tutti i laureati e, allo stesso tempo, un Omero teso ad un doppio dialogo: uno, con il numen ispiratore, che lo rende simile all’ispirato Apollo; l’altro con chi dovrà dare memoria al suo canto attraverso la parola scritta. Il ruolo di chi deve tramandare per iscritto la poesia è fondamentale, come mostra anche, nella volta della Stanza, l’allegoria della Poesia, che tiene un libro in mano ed è affiancata dalla parola scritta nella doppia epigrafe. La parola poetica ha dunque bisogno della scrittura e dei libri per poter essere trasmessa nel tempo.

Il fanciullo alla destra di Omero, seduto sulla roccia del Parnaso, si accinge a scrivere le parole ispirate del poeta.[89] Sull’identità del giovane, per lo più considerato erroneamente un poeta, sono state avanzate varie ipotesi[90] ma l’assenza di tratti distintivi poetici, fin dalla corona laureata,[91] l’abito, la postura e analogie interne ad altri affreschi della Stanza della Segnatura, dove appaiono giovani scribentes o scripturi in relazione a personaggi più anziani che dettano, inducono a proporre una diversa lettura del giovane. Solo sul suo capo manca il serto di alloro e questa assenza non è irrilevante nel Parnaso vaticano, dove è stato ampiamente dimostrato che in hoc signo va posto il mestiere di poeta. In un simile contesto, un poeta senza coronalaureata sarebbe una deroga incomprensibile. Anche nell’abito, il giovane fa eccezione: lui solo indossa una veste corta. Il colore in parte giallo è anche dell’abito di Omero e, con ovvie differenze, sembra che Raffaello abbia voluto sottolineare pure con questa similarità cromatica l’espressa relazione di funzioni e schemata fra il Poeta e il giovane. L’abito dello scrivano ha, poi, un interessante dettaglio di realismo, che contribuisce a restituire con più efficacia la funzione del fanciullo: la manica destra è tirata sopra al gomito, segno di cura a non volerla sporcare con l’inchiostro. Si è detto, e in parte dimostrato, che tra i dipinti della Stanza vi sono echi interni e alcuni riguardano proprio il ‹giovane di Omero› che, per la funzione, mostra analogie con il giovane scrivente della Disputa del Sacramento e ancor più con quello che scrive sotto lo sguardo del filosofo ascetico accanto a Democrito nella Scuola di Atene.[92] A questo il ‹giovane di Omero› può essere accostato anche per la postura – entrambi sono seduti con le gambe accavallate – e per l’abito corto. Ancora nella Scuola vi sono altre similarità, con il giovane discepolo di Euclide che, per fisionomia – specie volto e capigliatura – e per il dettaglio della manica accorciata della veste, rimanda al ‹giovane di Omero›.

Torniamo ora al volto del Poeta. L’affinità di questo con il volto di Laocoonte è stata già variamente colta,[93] tuttavia restano aperte questioni essenziali: perché Raffaello sceglie il volto del Laocoonte per Omero? Quale idea di Omero vuole comunicare ai frequentatori della Stanza della Segnatura, che visitavano, o potevano visitare, anche il Cortile del Belvedere, dove era esposto il gruppo scultoreo? Nasce da Raffaello l’idea di ispirarsi al Laocoonte o è suscitata, se non richiesta espressamente, da Giulio II? E in questo caso, dal solo Papa o da uno dei consiglieri della creazione della Stanza, penso soprattutto a Inghirami, che tanta parte ebbe nell’ideazione iconografica e nel lessico della Stanza? Quanta autonomia ha avuto Raffaello nel dipingere Omero, la stessa, ampia, lasciatagli per la Scuola di Atene? In questa sede affronto solo alcuni di questi temi e senza pretendere di esaurirne la problematicità.[94]

Punto di partenza è cogliere il significato che Laocoonte aveva per il Papa e il suo entourage perché è nella Roma di Giulio II, prima che nella duttile intelligenza visiva di Raffaello, che si deve collocare la scultura, tuttavia tenendo come importante ipotesto il dialogo sempre vivace tra il Papa-committente e i suoi artisti. Per affrontare questo tema essenziale sono illuminanti e del tutto condivisibili le considerazioni di Sonia Maffei e di Vincenzo Farinella. In La fama di Laocoonte nei testi del Cinquecento, Maffei[95] evidenzia che la morte del sacerdote troiano è

simbolo della caduta di Troia ma anche sacrificio che permette la fuga di Enea e la fondazione di Roma. Il mito troiano prefigura così nel dolore di Laocoonte lo splendore della Roma augustea. Non meno del giudizio di eccellenza di Plinio il Vecchio[96] l’altezza della poesia virgiliana contribuisce […] a collocare il Laocoonte di marmo scoperto nel 1506 all’apice del giudizio dei contemporanei.

Con medesimo acume, Farinella[97] rileva un aspetto ideologico fondamentale, insito nel recupero e nella esibizione del Laocoonte, e non solo, da parte di Giulio II:

«il rapporto tematico […] tra il Laocoonte (con le sue palesi allusioni al mito della fondazione di Roma), l’Apollo (il protettore delle arti e delle lettere che Augusto aveva eletto a proprio nume tutelare) e la Venere (la progenitrice divina della ‹gens Iulia› e di quel Giulio Cesare in cui il papa amava rispecchiarsi) doveva suonare, a chi sapesse intendere le allusioni alla storia contemporanea celate nei miti classici, come un’implicita esaltazione del pontificato di Giulio II e della sua politica di rifondazione di Roma, capace di avviare una nuova età dell’oro».

La ripresa del volto del sacerdote troiano per il ritratto di Omero si comprende e si motiva alla luce della renaissance perseguita dal Papa in ambito politico e culturale. Per la sua attuazione le scoperte di antichità e il loro valore simbolico erano fondamentali, tanto più nel caso di una immagine-chiave per la fondazione della Roma renascensIuliana quale era il Laocoonte, opera che, inoltre, dal 1506 incarnò agli occhi del Papa e di Roma le parole degli auctores antiqui, di Plinio il Vecchio e soprattutto di Virgilio e che ricevette attenzione, non senza motivo, da parte di uno degli umanisti più quotati nei cenacoli intellettuali di Roma, compreso quello iuliano: Jacopo Sadoleto. Questo poeta e letterato inneggiò alla scoperta con il poemetto De Laocoontis statua (1506), molto diffuso e apprezzato, e la sua verosimile presenza nel Parnaso, nel personaggio barbato ritratto accanto alla Musa Urania, sul cui significato ha ben argomentato Alberto Casadei,[98] darebbe ulteriore forza ideologica all’opzione iconografica del volto di Laocoonte per il ritratto di Omero.

Poco prima della scoperta dell’opera dei summi artifices rodiesi[99] nel 1505, fu pubblicata la prima edizione a stampa, presso Aldo Manuzio, dei Posthomerica o Paralipomeni a Omero di Quinto Smirneo (o Quinto Calabro), detto dai primi commentatori rinascimentali ὁμηρικώτατος. Anche se il testo era già noto e circolante nella seconda metà del XV secolo, soprattutto grazie a Costantino Lascaris e ad Angelo Poliziano,[100] l’edizione manuziana determinò una notevole diffusione del seguito dell’Iliade[101] presso poeti e letterati del XVI secolo.

Con i Posthomerica Smirneo intese ricollegarsi ai due poeti antonomastici del ciclo troiano, Omero e Virgilio, introducendo delle varianti, una delle quali, per noi molto significativa, riguarda Laocoonte:

[…] buia, intorno alla sua testa / la notte piombò, un acuto dolore colpì le sue palpebre / e sotto le irsute sopracciglia gli occhi furono sconvolti: / le pupille, trapassate da dolorose fitte, / dal profondo erano tormentate; si stravolgevano gli occhi / punti dall’interno, un’acuta sofferenza arrivava / fino alle meningi e nella profondità del cervello. / Allora apparivano rigati di molto sangue i suoi / occhi, come afflitti da incurabile glaucoma; / trasudavano molto come quando da dura roccia / sgorga dai monti acqua mista a neve. / Sembrava essere impazzito e vedeva tutto doppio, / grandi lamenti emettendo. Ma ancora ai Troiani dava ordini / e non si curava della sofferenza. Infine la nobile luce gli tolse / la dea divina: sotto le palpebre le pupille rimangono bianche / esaurito il fiotto del sangue funesto.[102]

Anche attraverso le parole di Quinto Smirneo è chiaro che, all’inizio del XVI secolo, il volto più legittimato a essere il modello per Omero non poteva che essere quello di Laocoonte. Il sacerdote-veggente, pur assente nell’Iliade, era diventato, grazie a Virgilio e alla rilettura dei suoi versi da parte di Giulio II e del suo cenacolo di letterati e artisti, una delle figure simbolo dell’epos troiano, di cui l’Iliade di Omero era indiscussa pietra miliare e di cui i Posthomerica di Smirneo costituivano autorevole ripresa e sviluppo; Posthomerica che, come il Laocoonte scultoreo di Agesandro, Atenodoro e Polidoro, erano una delle scoperte del Rinascimento.[103]

Uscendo dalla Stanza e tornando al Cortile del Belvedere e a Laocoonte, non si può non notare che, anche per il giovane, Raffaello ha guardato al gruppo scultoreo: la postura del suo volto è la stessa che i summi artifices attribuirono al figlio alla sinistra del sacerdote, che nel solo padre spera di trovare la possibilità di continuare a vivere, e così nel viso del fanciullo rivolto con stessa accentuata torsione verso Omero, Raffaello fa trapelare, enfatizzandola, l’espressione di rapimento per la parola del Poeta, dalla quale prenderanno vita le parole degli altri poeti.

Con la scelta del gruppo di Laocoonte per tradurre visivamente Omero e il giovane che trascrive i suoi versi, Raffaello esprime da un lato di condividere la visione ideologica e culturale di Giulio II (e Inghirami), dall’altro afferma in modo eclatante il proprio classicismo,[104] proclamandosi erede di quei summi artifices, geniali creatori del Laocoonte, di cui Plinio aveva conservato memoria.

Omero e il giovane rapsodo,[105] insieme ad altre figure protagoniste del Parnaso e alla stessa impostazione dell’affresco, avvalorano la vastità e l’eterogenità dell’archivio iconografico e culturale di Raffaello, la sua straordinaria capacità di assorbire, sperimentare, risemantizzare.

Nel monocromo al di sotto della parte sinistra del Parnaso, in corrispondenza del gruppo con i poeti epici guidati da Omero, Raffaello rappresenta il salvataggio dell’Iliade da parte di Alessandro Magno (Alessandro che fa riporre in un cofano di Dario l’Iliade di Omero), concretamente aiutato da un soldato che depone il testo omerico in un forziere classicheggiante.[106] Questo episodio era usato nel Rinascimento per indicare il rapporto fra letteratura, arti, armi e per simboleggiare il patrocinio delle manifestazioni artistiche da parte dei sovrani. Inoltre, fa parte di quella leggendaria «venerazione»[107] di Alessandro per Omero, su cui si era soffermato Petrarca, e che Baldassarre Castiglione, tra i plausibili ideatori della Stanza e molto legato a Raffaello,[108] aveva ripreso dal poeta aretino nel Cortegiano.[109]

La relazione topografica e semantica con Omero e il giovane scripturus è evidente ed è richiamata anche dall’identico schema del braccio destro di Omero e del Macedone.

Che Omero e l’Iliade, testo «viatico di virtù bellica»[110] e «specchio verissimo della vita umana»,[111] avessero una positio princeps per Giulio II, i suoi letterari e artisti è incontrovertibile. Altrettanto chiara è la funzione essenziale di trasmettere e conservare la parola alata, svolta dal giovane che sta per mettere per iscritto la poesia del poetarum princeps.

Di quel giovane e della sua funzione non resta memoria nella più icastica apoteosi di Omero ispirata al Parnaso di Raffaello, l’Homère déifié di Jean-Auguste-Dominique Ingres (1827).[112] In questo dipinto, Omero è poeta divino, icona ieratica e solenne seduta difronte a un tempio a lui intitolato, come si legge nell’epigrafe onomastica che campeggia al centro del fregio. Ai suoi piedi siedono le personificazioni dell’Iliade e dell’Odissea, indicate da iscrizioni in greco, e spiriti magni dell’antichità convergono verso il Poeta da onorare fra gli dèi o da ritenere, comunque, un dio, parafrasando l’altra epigrafe sul basamento del trono su cui siede Omero. Tra i grandi del passato che hanno il sacro diritto di appartenere alla corte del divino Omero, Ingres non dimentica Raffaello: dà al pittore del Parnaso vaticano una posizione di rilievo e un compagno d’eccezione, il pittore Apelle, che tenendolo per mano, afferma e manifesta il legame indissolubile e imperituro di Raffaello con l’antico.


Desidero ringraziare Concetta Bianco, Gerardo Guccini, Nicoletta Guidobaldi, Joongwon Jeong, Vincenzo Trione, Ranieri Varese.


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Published Online: 2020-09-19
Published in Print: 2020-09-10

© 2020 Viccei, published by De Gruyter.

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Downloaded on 7.5.2024 from https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/anab-2019-0010/html
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